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Un angelo del sociale: Maria, la psicologa delle "sorelle" di Mazara scambiate in culla

Psicoterapeuta all'Asp di Trapani, Maria Lisma non esercita per scelta attività privata, perché è convinta che "chi può, deve dare il meglio nel servizio pubblico"

Jana Cardinale
Giornalista
  • 21 novembre 2021

La psicologa e psicoterapeuta Maria Lisma

"Il dolore ha una porta che si apre dall’interno. E quando l’altro ti dice che puoi entrare, tu ci devi essere. Questo vale per tutte le persone che incontri, sempre, comunque".

Le sue parole sono evocative e il suo modo di porgere una visione della vita che sia il più emozionante e consapevole possibile, esce, in punta di piedi, da una favola, per raggiungerci nella frenesia del quotidiano e impedirci di sfuggire alla riflessione che ci è mancata.

Maria Lisma ha l’immenso dono della voce e dell’eloquenza, e la sua esperienza è promessa di onestà. Per questo ascoltarla è un arricchimento puntuale.

Psicologa e psicoterapeuta in servizio presso l’Asp di Trapani, al Dipartimento di Neuropsichiatria infantile e Psicologia ospedaliera, non esercita per scelta attività privata, perché è convinta che "chi può deve dare il meglio nel servizio pubblico".

E si definisce “psicologa della mutua”. Mazarese, non dimentica un caso che l’ha coinvolta, da giovane, professionalmente ed umanamente: quello delle bambine scambiate nella culla, in ospedale.
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In occasione della fiction trasmessa da Rai1, "Sorelle per sempre", la produzione televisiva l’ha contattata e lei ha fornito delle informazioni per la sceneggiatura.

«Il caso mi è stato assegnato dal Tribunale dei Minori nel gennaio 2001 con uno dei primi decreti che indicavano un incarico ad personam, per garantire il più possibile la tutela delle famiglie - racconta -. Allora la dottoressa Daniela Borsellino, giudice presso il Tribunale dei minori, che mi convocò, stabilì assieme a me che né le famiglie, né le bambine, dovessero andare presso i servizi pubblici».

«Con le bambine ci siamo allontanate dopo la fase critica, però le ho sempre incontrate, da ragazze, e dopo qualche anno, in seguito alle opportune verifiche, quando abbiamo accertato che sono stati tutti bravissimi - aggiunge -. Famiglie esemplari. È stato un caso inedito che aveva una portata emotiva importante.

A quei tempi uno dei miei tre figli aveva l’età di queste bambine, e anche se nello sceneggiato mi hanno rappresentata più giovane, avevo già 34 anni.

Si tratta di due famiglie disponibili con grandi risorse emotive e affettive, che hanno rinunciato a qualunque compenso per la pubblicità allora offerta, e che hanno favorito un processo di affiliazione che era importantissimo.

Quando si arrivò al decreto dell’affido alle famiglie naturali, con la separazione dalle famiglie legittime, in un momento di disorientamento per dar vita a una nuova genitorialità, sono stati bravissimi».

Maria Lisma a Mazara è la presidente dell’Associazione “Le parole delle donne”, che nasce nel giugno 2021, nel solstizio d’estate, “che è una scelta simbolica, non casuale”. Fondata come Movimento, diventata poi Associazione, ha aperto il tesseramento a numeri diventati consistenti.

«Ci siamo chieste che bisogno ci fosse di un’altra associazione nel territorio. In realtà non ce n’era bisogno, ed è nata per sovrabbondanza, per ricchezza, perché abbiamo voluto mettere le nostre risorse al servizio del territorio. Siamo tante, abbiamo vissuto con entusiasmo e partecipazione questo percorso e sappiamo che per esistere bisogna essere visibili.

Siamo lontane dall’esibizionismo del bene, ma ci siamo dette che se è vero che lo spazio si dà solo al male, e mai al bene, le persone non vengono mai spinte a fare del bene, e invece noi vogliamo pubblicizzare la città come comunità solidale.

La nostra Associazione cammina su due gambe – aggiunge - : una è quella che ci spinge a rispondere a esigenze precise in rete con altre associazioni, ad esempio per la raccolta di beni di prima necessità per i migranti di Campobello di Mazara, con Libera e gli scout, con i Lions per una raccolta di indumenti per le donne afgane, per un progetto di inclusione per cui abbiamo indossato delle magliette dipinte da un bimbo autistico.

L’altra è quella che vuole produrre un piccolo cambiamento culturale: nessuno vuole fare una rivoluzione.

Ciascuna di noi ha lavorato in tre anni in silenzio e in segreto e ha accolto situazioni dolorose importanti che trattiamo con pudore. Abbiamo lavorato con Cati Mangiaracina per il suo ‘Infinito femminile’ con dei testi che sono stati utilizzati per la lotta alla violenza prendendo spunti da casi specifici. Oggi abbiamo una segreteria ma non ancora una sede fissa e per questo parteciperemo ai bandi per le sedi confiscate alla mafia».

«Abbiamo una pagina Facebook, una mail, e ci siamo riunite in assemblea alla sala La Bruna al Palazzo dei Gesuiti», conclude.

Maria Lisma svolge un incarico di alta professionalità per l’Azienda Sanitaria per le vittime di abusi e maltrattamenti. Abuso di minori, in particolare, in cui c’è sempre una famiglia alle spalle e quindi lo sguardo va all’intera famiglia.

«Abbiamo, purtroppo, diversi casi di bambini abusati e la quasi totalità sono casi intrafamiliari - spiega -. Parliamo di bambini che sono vittime dirette di violenza e anche di violenza assistita, subita allo stesso modo e con un effetto traumatico che non è diverso da quello che vivono i bimbi direttamente abusati.

Quando entra un trauma di questo tipo nella vita di un minore gli effetti sono variabili e dipendono dall’attore della violenza, dalla durata della violenza e dalla capacità di tutela e protezione che l’altro genitore ha saputo mettere in atto.

Queste variabili determinano il danno su cui andiamo a lavorare per un tentativo di riparazione del trauma. Spesso io faccio la denuncia e la segnalazione, perché l’abuso lo rivelano a me direttamente».

Maria Lisma racconta di andare nelle scuole, e di aver lavorato lo scorso anno in una scuola media con un laboratorio che ha messo in luce la capacità degli alunni di utilizzare gli strumenti tecnologici ma l’incapacità di difendersi dai predatori, e ricorda il caso di una bambina adescata in rete.

Il lavoro di formazione portato avanti nelle classi è quello di provare a insegnare a distinguere il bene dal male.

«Uno dei fenomeni a cui stiamo assistendo con maggiore evidenza – dice - sono i disturbi di identità di genere. Ci sono ragazzine che rifiutano l’identità femminile e portano problematiche importanti per il rapporto con il proprio corpo, legati a disturbi del comportamento alimentare, al modo di vestire e quasi sempre a un ritiro sociale, che è un fenomeno sempre più evidente e precoce».

Come si riesce a svolgere un lavoro tanto delicato e non farsi travolgere dal dolore?

«I primi casi di violenza sui bambini li ho vissuti con enfasi terribile - racconta -, ho ricevuto anche lettere anonime e minacce. Per uno dei processi più famosi che si svolgeva nel 2000, la mia figlia maggiore aveva 6 anni e mi hanno minacciata dicendomi di conoscere i suoi spostamenti.

Adesso non mi lasciano di certo indifferente, ma mentre prima pensavo che fosse necessaria una giusta distanza, ora utilizzo la modalità della ‘giusta vicinanza’, anche con i pazienti in ospedale: lo spazio da interporre è sempre lo stesso, ma l’atteggiamento cambia e significa che io sono lì e sto cercando di non pungermi, ma devo essere attenta a esserci, a ‘sostare’ nella relazione, usando un termine caro alla pedagogia.

Non guardo mai ai casi ma alle persone: non guardo la parte malata ma la parte sana, perché posso curare la parte malata solo se trovo la parte sana, e la trovo anche nei pazienti in fin di vita».

Non si può non fare cenno al Covid, che ha cambiato le nostre vite.

«Il Covid – racconta - negando la presenza dei parenti dei familiari ha segato una possibilità affettivo-relazionale in un momento di profondo disorientamento. Lo stare male mette sempre in posizione down, e stare male in periodo Covid è terribile.

Anche in ostetricia è stato così, e abbiamo avuto a che fare con casi di morti intrauterine, o aborti, o bambini in intensiva, dove queste madri non potevano condividere con nessuno il loro dolore. E allora lì ci devi essere, ci devi stare nella misura in cui l’altro ti permette di entrare in questo dolore, e a volte ti devi fermare sull’uscio. Noi dobbiamo fare quello per cui siamo chiamati. Non mi sono mai stancata di quello che ho scelto, e la relazione non mi stanca mai».

Esistono situazioni apparentemente uguali, ma le persone sono tutte diverse, e questo lavora porta anche a imparare dalle persone.

«Non ho fatto mistero del fatto che a volte piango assieme ai pazienti; imparo a nuotare negli occhi allagati delle altre persone, senza annegare. Altrimenti non posso provare quello che loro provano. I risultato migliori si hanno quando c’è rete, dove si crea sinergia vera tra operatori dei diversi servizi. I risultati sono migliori, e io sono per il metodo cooperativo e non competitivo».

Un episodio rimasto impresso per l’intensità della storia?

«Un bimbo profugo che è arrivato prima in comunità e poi è stato affidato a una famiglia di Salemi. Dopo quattro anni è arrivata la mamma naturale. Lì ho lavorato molto bene con il Centro Affidi di Trapani e il Tribunale. Abbiamo creato sinergie quasi miracolose.

Mi sono messa anche a ballare per far sì che il bambino e la mamma, che parlavano lingue diverse, potessero toccarsi. Ci si deve inventare delle cose. E succede sempre.

Quando ci sono fobie scolari, casi di mutismo selettivo. Ogni bambino e ogni persona arriva con situazioni diverse: alcune sono petali di rose, altre macigni pesantissimi. Si parte da una storia che non è sempre la più bella che avresti voluto raccontare».
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