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Un intervento di 10 ore a Palermo gli salva la vita: Luca corre la maratona di New York

Ha visto tante volte la morte, dall'incidente in moto al secondo ricovero, con la diagnosi che non lasciava speranza. Ma il 49enne non si è arreso: "Ho vinto la mia gara"

Stefania Brusca
Giornalista
  • 14 novembre 2025

Luca Savettiere con la moglie e la figlia

Un incidente in moto gli cambia la vita per sempre. Ha visto la morte in faccia più di una volta Luca Savettiere, palermitano di 49 anni. La prima a luglio del 2007, quando la caduta lo lascia vivo ma resta ricoverato due mesi in ospedale, con circa 15 ossa fratturate e lesioni a vari organi interni e soprattutto con il diaframma staccato. «Non sapevano se mi avrebbe causato dei problemi - spiega - ma in quegli anni non c'era una terapia specifica, le mie condizioni si dovevano monitorare e vedere via via se e come intervenire».

Gli anni passano, ma a un certo punto, nel marzo del 2023 la situazione precipita. «Tutto è degenerato di colpo, dopo un forte dolore addominale, simile a una colica biliare - ripercorre Luca -. Mi sono ritrovato sospeso tra la vita e la morte. A causa dell'incidente i miei organi si erano spostati lentamente: il colon premeva sul polmone, il fegato e lo stomaco si erano incastrati nello spazio lasciato dal distacco del diaframma. Sono finito di nuovo in ospedale, facendo cure con antibiotici e cortisone. Dopo un mese di ricovero, la diagnosi non era positiva, mi avevano detto che per loro non c’era nulla da fare. Ricordo solo la paura negli occhi di mia moglie e la consapevolezza che il mio corpo non ce la stava più facendo».

Ma Luca non si ferma. L'ospedale aveva trasmesso la cartella all'Ismett di Palermo, che in seguito scoprirà essere uno dei due ospedali, insieme al Gemelli di Roma in grado di poterlo curare. Nel momento in cui tutto sembra perduto arriva uno spiraglio, si vede una piccola luce in fondo al tunnel. Un’operazione rischiosa ma necessaria. «All'Ismett hanno capito subito che la diagnosi era sbagliata - continua-. Dopo cinque giorni dal primo appuntamento mi hanno operato, dicendomi che la situazione era grave e c'era la possibilità che l'intervento non andasse a buon fine ma ce l'ho fatta».

L’intervento è durato dieci ore. «Mi hanno tolto la cistifellea, liberato il polmone compresso per più di quindici anni, rimesso in ordine quello che dentro di me era andato fuori posto. Mi hanno smontato l’addome e l’hanno rimontato. Quando mi sono svegliato, ho capito che quella non era la fine: era il punto di partenza per qualcosa di nuovo, invisibile, fatto di respiri corti, passi lenti e giorni in cui non riuscivo neanche a stare in piedi. Piano piano, con la paura di non poter crescere adeguatamente mia figlia, che all'epoca aveva poco più di tre anni, con la paura di non poter fare il padre, ho ricominciato a camminare. A respirare. Poi a correre».

Per non mollare, Luca si dà un obiettivo che sul momento sembra essere anche più grande di lui, quello di correre la Maratona di New York. «Ho iniziato ad allenarmi nel 2024, per i primi sei mesi in versione più blanda e per i successivi sei in modo più intensivo. Correre è diventato il suo personale modo di dire grazie: «a me stesso, alla mia storia, alla vita che non avevo ancora finito di vivere, a mia moglie e a mia figlia, oltre che a tutte le persone che in questi anni mi hanno aiutato. Ogni chilometro era un pezzo di paura lasciata alle spalle. Così, nel 2024, ho deciso di iscrivermi alla maratona di New York».

Luca non aveva mai corso una maratona prima, «ma neanche una 10 km, ma sentivo che quello era il mio traguardo simbolico. Non un gesto sportivo, ma una dichiarazione d’amore verso la possibilità di ricominciare, di sconfiggere le paure. Il 2 novembre 2025, a Staten Island, ero tra migliaia di persone pronte a partire. Davanti a me il ponte di Verrazzano, dietro tutto il dolore, l’incertezza, i mesi passati a chiedermi se ce l’avrei fatta».

Quando il colpo di cannone segna la partenza, racconta ancora Luca, ha sentito lo stesso brivido che provò entrando in sala operatoria: paura, ma anche fiducia. «Cinque ore dopo, ho tagliato il traguardo a Central Park. E ho pianto. Non per stanchezza, ma per gratitudine. Gratitudine verso un corpo che non ho sempre trattato bene, ma che non ha mai smesso di combattere per me. Correre la maratona non è stato un gesto eroico, ma umano. È stata la risposta a tutto il dolore, il modo per dire “sono ancora qui”».

Una lezione importante di vita, la sua storia, che ci insegna che non è finita finché non è finita. «Perché la maratona, come la vita, non è una questione di tempo ma di resistenza. Conta quante volte riesci a rialzarti, quante volte scegli di andare avanti anche quando ogni muscolo urla di fermarti, quando la testa ti dice che è abbastanza. E in quei momenti, quando pensi di aver finito, scopri che puoi ancora dare qualcosa. Che puoi ringraziare, persino mentre soffri. Il mio corpo, oggi, dice grazie. E io con lui».

Adesso può correre una maratona, ma cosa ancora più importante, può fare il padre: «Quando corri una maratona ognuno è vincitore della propria gara. Dopo la medaglia, ho chiesto a mia figlia: “Qual è stato il momento più bello di oggi?”. Lei ha risposto “quando lungo il percorso ti ho visto correre, quando ti sei fermato per abbracciarmi e baciarmi”. È stato meglio di qualsiasi premio potessi ricevere». Ora non intende più fermarsi. Il prossimo obiettivo? «La Maratona di Roma nel 2026, mi sto già preparando».
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