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Un tè con una nobildonna: Donna Milly e l'itinerario aristocratico tra le vie di Palermo

Tra gli avi di Milly Vanni di San Vincenzo c'è il Principe Alessandro Vanni che donò i suoi libri alla Biblioteca Comunale di Palermo. Ecco la storia della famiglia Vanni

Susanna La Valle
Storica, insegnante e ghostwriter
  • 2 dicembre 2020

Il busto di Alessandro Vanni presente nella Biblioteca comunale di Palermo

Immagino un invito per un tè nel salotto di una bella casa di una nobildonna palermitana per parlare di aristocrazia. L’immaginazione è d’obbligo in quest’articolo, l’incontro sarà infatti necessariamente virtuale, realizzato attraverso lunghe conversazioni telefoniche.

Lei è Milly Vanni di San Vincenzo. Le chiedo la storia della famiglia Vanni. Di origine pisana, una volta il cognome era Appiani, arrivarono in Sicilia intorno al 1300.

Tra i suoi avi, il Vescovo di Cefalù, Carlo Vanni che costruì a sue spese il seminario arcivescovile, il Marchese, Francesco Maria Emanuele di Villabianca, il Principe Alessandro Vanni di San Vincenzo che donò tutti i suoi libri alla Biblioteca Comunale di Palermo e il nonno Ignazio imparentato con i Marchesi Pensabene Perez.

Da parte materna, i Baroni Valenti: suo nonno Nino, nato in una abitazione costruita da Damiani Almejda, era un appassionato d’antiquariato e di archeologia, aiutò il figlio Giovanni ad eseguire gli scavi archeologici a Corleone che portarono al ritrovamento del “miliarum” restaurato a sue spese, sempre Giovanni scoprì Hippana (città distrutta nella prima guerra punica dai Romani).
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Mentre la ascolto ricordo la descrizione fatta da Maupassant sulla voce dei siciliani, cantilenante morbida con la nota che scende dalla fronte alla gola. Mi descrive i valori e le tradizioni di un aristocratico rappresentati in primis dalla cultura ed educazione, valori non più appartenenti alla società consumistica attuale che distrugge “l’Animus” dell’individuo producendo arroganza e prepotenza. Donna Milly ha seguito l’esempio del padre (Docente all’Università): si è laureata, continuando a coltivare e conservare origini e tradizioni famigliari.

Le chiedo un itinerario aristocratico, mi dice che inizierebbe da piazza Marina, luogo da sempre amato dalla nobiltà, con lo Steri Hosterium Magnum, la domus magnatizia di Andrea Chiaromonte. Nella stanza dei Baroni c’è un soffitto a cassettoni riportante gli stemmi delle famiglie imparentate con i Chiaromonte, per poi proseguire con il palazzo Notarbartolo, già dei duchi di Villarosa, con cariatidi bianche sulla facciata, ed il Palazzo Fatta della Fratta.

Suggerisce poi di proseguire per via Alloro, con il Palazzo dei Lo Faso di San Gabriele ed il palazzo Abatellis. Arrivando alla Kalsa, il Palazzo Mirto Filangeri; i Duchi di Mirto essendo Grandi di Spagna di prima classe, potevano restare con il cappello in testa in presenza dei reali. La sontuosa dimora, non avendo avuto eredi è stata lasciata alla Regione Lazio.

Proseguo la mia conversazione con argomenti più leggeri ed in particolare sui piatti che fanno parte della sua tradizione. Apprendo così che le antiche ricette dei Monsù (i cuochi di famiglia) che vengono tramandate da generazioni; famoso è il Timballo del Gattopardo, un fragrante involucro di pasta frolla con all’interno i fegatini, il Biancomangiare, un dessert a base di crema al latte al profumo di cannella, o le gelatine di frutta colorate e fresche.

Il suo menù delle feste sarà un timballo con tortellini, prosciutto cotto, pisellini e besciamelle (indispensabile nella cucine aristocratiche) e l’arista di tacchino alla panna con cipolline in agrodolce; l’albero sarà bianco con le decorazioni in oro e vi sarà un bel Presepe.

Riguardo la “mise en place” aristocratica ( il corretto servizio a tavola) importanti sono le tovaglie antiche ricamate con lo stemma di famiglia, candelabri con candele rosse o gialle, caraffe per il vino o l’acqua (mai le bottiglie). Un tempo i camerieri avevano la livrea con lo stemma di famiglia sui bottoni della giacca, c’era inoltre un rullo per trasportare le pietanze calde dalle cucine al salone.

Donna Milly non ama andare al ristorante (anche il suo ricevimento di nozze si tenne a casa), preferisce invitare gli amici a “colazione” (il termine pranzo meglio evitarlo con i nobili), o a un cocktail. Ma perché la nobiltà suscita interesse?

«La società in cui viviamo è di massa, invece l’aristocrazia specialmente in Sicilia conserva il fascino di una cultura millenaria di storia, classe e bellezza. Le persone spesso si spacciano da nobili, cercano un titolo come "Sedara" nel Gattopardo; per loro è una porta che apre un mondo esclusivo di cui spesso si sogna».

Descrive questi personaggi che girano intorno all’aristocrazia millantando amicizie e titoli, come pervenu (l’arrichito) e grasser (il rozzo). Quale libro consiglierebbe per conoscere le famiglie Nobiliari? «Sicuramente il Libro d’oro della Nobiltà Italiana».

Riguardo l’eleganza, è la semplicità senza eccessi «l’aristocrazia non è mai cafona o volgare, si basa sulle buone maniere e sul rispetto, come il baciamano alle Dame». Immagino a questo punto di accommiatarmi dalla Nobildonna, di camminare nella casa (che in realtà non conosco), cercando di conservare nella memoria questo incontro, mai avvenuto.

Tornata alla realtà chiedo alla fine della conversazione: «Cosa desidera Donna Milly?». «Che si possa tornare a vivere liberamente, che finisca per sempre tutta questa sofferenza», risponde.

Desiderio che ci accomuna tutti, senza distinzione di classe o di ceto.
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