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Una villa che ha avuto più vite di un gatto: l'ex casa di Tomasi di Lampedusa a Bagheria

Fu Giuseppe Tomasi di Lampedusa che il 4 agosto del 1923, presso il notaio Castronovo, vendette la villa, meno di vent’anni dopo averla ereditata.

Sara Abello
Giornalista
  • 28 giugno 2023

Villa Cutò a Bagheria

Ormai da decenni si sente parlare di Bagheria come «la Città delle Ville».

Solo di recente, sempre grazie al mio professore del cuore Mimmo Aiello, ho scoperto che questa definizione, divenuta nel tempo un vero e proprio slogan per la comunità baariota, deriva dal titolo del capitolo finale del libro Il Palazzo Cutò di Bagheria, scritto dall’architetto Antonio Belvedere nel 1995.

Fu proprio Renato Guttuso, in riferimento alla moltitudine di ville settecentesche del nostro territorio, a descrivere così Bagheria.

«Le contrade sono invase, le Ville settecentesche annegate in un incremento edilizio spesso caotico e disordinato (...) Tuttavia c’è in questa singolare cittadina una forza interiore che le permette di conservare i suoi caratteri fondamentali, attraverso gli sviluppi e le mutazioni».

Era il 1984, e di sicuro la situazione oggi non è cambiata. Da una descrizione meno aulica di quella di Guttuso verrebbe da dire: «uomini e case intorno alle ville, in alcuni casi purtroppo proprio a ridosso se non dentro».
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Tornando a Palazzo Cutò però, ci si chiede quale sia la storia di questa villa tra le tante di Bagheria, perchè come ci ricorda Hegel, «ciò che è noto non è conosciuto», quindi vi sono luoghi, edifici, scorci che siamo abituati a vedere ma di cui non sappiamo quasi nulla.

L’abitudine poi, purtroppo ci porta sovente ad accettarne anche lo stato di decadimento in cui effettivamente villa Cutò oggi si trova. L’edificio sorge proprio al limite della linea ferroviaria, poco distante da Villa Cattolica e nel quartiere "punta aguglia” di cui già vi parlai citando il lavoro di un’altra baariota doc, l’artista Caterina Guttuso.

Tempo fa, raccontandovi di Villa Filangeri invece, sede del Comune della vicinissima Santa Flavia, venne fuori un interessante albero genealogico che metteva in relazione la villa flavese, il castello di San Marco poco distante, e Palazzo Aragona Cutò: un tris di bellezze.

Il principe Pietro Filangeri, che acquistò e successivamente fece modificare la struttura preesistente rendendo la villa di Santa Flavia più o meno come la conosciamo oggi, era conte di San Marco, imparentato dunque con quel Vincenzo Giuseppe Filingeri, conte di San Marco e principe di Mirto, che a pochi passi da lì, al limite con Bagheria, nel 1673 fece edificare Villa San Marco.

La famiglia Filangeri ebbe in Sicilia quattro diramazioni: i principi di Mirto di Villa San Marco, i duchi del Pino, i principi di Santa Flavia e i principi di Cutò appunto.

Villa Aragona Cutò, edificata tra il 1712 e il 1716 da Luigi Onofrio Naselli, principe di Aragona, sorge come sempre accadeva nella piana di Bagheria come residenza vacanziera.

Appartennero a questo ramo Teresa Mastrogiovanni Tasca Filangieri di Cutò, madre del poeta Lucio Piccolo, e sua sorella Beatrice, madre dello scrittore Giuseppe Tomasi di Lampedusa che, nel 1923, vendette la villa ad alcune famiglie bagheresi, le prime non aristocratiche a possederla, e che ne mantennero la proprietà fino al 1987, anno in cui l’intero complesso monumentale venne acquistato dal Comune.

Passando di lì, è inevitavile constatare lo stato "un po’ malaticcio" dell’edificio che ha avuto più vite di un gatto: sede della Scuola Regionale d’Arte, del Museo del Giocattolo prima che si spostasse alla Certosa, del Dams che per un periodo qui ha avuto una base d’appoggio, e ancora oggi biblioteca comunale.

Mi perdonerete se mi è sfuggita qualche destinazione d’uso ma la mia età e la varietà di situazioni passate di lì non sono di supporto nella ricerca.

Certo è che Palazzo Cutò, un po’ più piccolo di altre ville coeve di Bagheria, o forse solo più travolto dagli edifici intorno, sorgeva splendidamente già a partire dal grande terrazzo coperto che sormonta la struttura di pianta quadrilatera, dalla quale il principe e i suoi amici venuti in visita potevano ammirare i fuochi d’artificio che già all’epoca erano uno spettacolo in occasione del festino di santa Rosalia.

Affreschi nel grande salone da ballo e lucidi marmi di colore rosso sono solo alcune delle pregiate rifiniture che caratterizzavano il palazzo quando era al massimo del suo splendore.

Del resto le ville per la villeggiatura della nobiltà palermitana sorte a Bagheria, e che di fatto hanno portato alla nascita e allo sviluppo del successivo agglomerato urbano, erano quasi un’ostentazione delle potenzialità economiche e del gusto estetico dei loro “padri fondatori”.

Spesso non era casuale neanche che sorgessero vicine vicine a quelle dei loro "parenti serpenti", tanto per sottolineare la superiorità di uno o dell’altro.

Come vi dicevo, fu Giuseppe Tomasi di Lampedusa che il 4 agosto del 1923, presso il notaio Castronovo, vendette la villa, meno di vent’anni dopo averla ereditata.

Quell’atto notarile rappresentò la fine di un’era, l’idea di decadenza nobiliare che ritroviamo tutta nel suo Gattopardo, e che ha concretamente aperto una nuova pagina per la villa fatta di tanti inquilini che l’hanno cambiata nel tempo.

Non è un caso che il libro di Belvedere sia stato riedito da poco, dopo quasi trent’anni dalla prima uscita, considerato lo stato di “paziente acciaccato” in cui versa la villa e il susseguirsi di tentativi di riapertura degli spazi, da troppo tempo non fruibili.

Al momento la biblioteca, il solo ambiente accessibile, è aperta solo al mattino, eccezion fatta per un pomeriggio a settimana, ciò coincide anche con i momenti in cui è possibile varcare la soglia del cancello e accedere all’edificio... pochino, non credete?!

Il Comune, privo dei fondi necessari al restauro e alla riapertura in toto, si è detto disponibile a delle convenzioni per la cogestione degli spazi. Di qualche mese fa alcuni incontri organizzati con associazioni locali e cittadini volenterosi.

Villa Cutò dovrebbe essere un luogo dove i giovani possano socializzare studiando, uno spazio per la cultura, per l’aggregazione sana.

È vero al contempo che se il Comune non dispone di un “pozzo senza fondo di denaro” da investire, non si possa neanche affidare la responsabilità esclusiva dell’in- dividuazione di progetti in tal senso ai privati cittadini, che pure dovrebbero iniziare a riprendere per sè gli spazi pubblici, impegnandosi a prendersene cura al meglio.

Uno spazio aperto è meglio di uno chiuso, ma uno rispettato e ben mantenuto è ancora meglio.
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