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A Palermo c'era la raccomandazione anche per morire: perché lo Sperone si chiama così

Nobili e plebei, ghigliottine e forche. In passato la pena di morte era discriminante: non tutti meritavano di morire allo stesso modo e con gli stessi servizi

Antonino Prestigiacomo
Appassionato di storia, arte e folklore di Palermo
  • 15 febbraio 2023

Roman Griffin Davis in una scena tratta dal film "Jojo Rabbit" (2020)

Anche la pena di morte in passato era discriminante, non tutti meritavano di morire allo stesso modo. I nobili dovevano morire da nobili e i plebei dovevano morire da plebei.

Altro che "la morte è una livella". Si livellava tutto solo dopo la morte, cioè l'anima si livellava, ma il corpo, quello no. Perché i nobili dopo la morte avevano posto nei sacelli delle chiese, mentre i poveri dove capitava.

Il nobile insomma rimaneva tale fino all'ultimo respiro, e così pure il plebeo, anche quando questi erano stati condannati a morte sotto gli occhi di tutti gli astanti sopraggiunti per assistere alla loro fine, già, perché la morte degli altri era un diversivo. Poteva essere un'alternativa alla noia della routine.

Quando il condannato era povero il giorno dell'esecuzione non vi erano grandi manifestazioni né spettacoli, a parte l'esecuzione stessa, mentre si faceva gran festa quando il condannato era di stirpe nobile perché i parenti ci tenevano che dovesse andare a morire con tutti gli onori.
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Enormi palchi nei piani della città di Palermo, adornati con panni neri trinati d'oro e vasi d'argento, ospitavano i seggi dell'aristocrazia e del clero vestiti in pompa magna.

Drappi cascavano dai balconi, servi in livrea nera di lutto e trine rendevano onore al nobile condannato e la folla scomposta, ondeggiante, mormorante, che si apriva solo per permettere alla cavalcata dei militari, guidata dal Capitano giustiziere, di partecipare all'evento, attendeva l'arrivo del condannato e la declamazione interminabile della sentenza di morte prima di esultare ascoltando la confermata condanna.

Forse ci si immagina che per rispetto al morituro si assisteva in religioso silenzio al trapasso del reo che in fondo era stato probabilmente, negli ultimi tre giorni della sua vita, assieme alla Compagnia dei "Bianchi", una confraternita composta da nobili incappucciati, e vestiti con un lungo saio bianco, che aveva il compito di “accompagnare” gli ultimi tre giorni di vita un condannato a morte nel tentativo riportarlo in grazia di Dio. E invece, si sa, la folla non ragiona, non medita, non rispetta i
momenti, perciò scalpitava.

I piani, cioè le piazze, specie quelli “nobili”, rinomati per la bellezza delle architetture, dei monumenti, dei sontuosi palazzi, raramente si trasformavano in scenari di morte, ospitando i palchi d'esecuzione.

Il piano di Santa Teresa, il piano della cattedrale, "il piano delle quattro cantonere", "il piano de' Bologni", il piano della Marina, il piano di Sant'Ersamo e perfino il piano del Carmine all'occorrenza divenivano i teatri macabri di boia e compari.

Ad onor del vero, a Palermo, anche le carceri erano di due tipi: vi erano le carceri della Vicarìa per la gente comune e le carceri del Castello a mare per i nobili.

E si moriva da plebei solo alla forca, tant'è che nacque un modo di dire a Palermo "A furca è pu poviru", mentre i nobili morivano “di mannaia”, ovvero ghigliottinati: «Madonna Altabella, nobile di Piazza, ebbe reciso il capo in piazza Marina con la mannaia (25 giugno 1588) per avere fatto uccidere una sua citella (ancella) che aveva detto a suo marito che lei si adulterava con un sacerdote. Il mandatario che uccise la citella nello stesso giorno fu impiccato perché ignobile».

Si intenda "ignobile" non come spregevole, ma come non nobile, quindi povero o di basso rango. La discriminazione era evidente anche nel fatto che mentre la forca era fissa, addirittura riprodotta nelle carte antiche della città, la ghigliottina veniva costruita solo per l'occasione.

Inoltre i corpi dei nobili venivano prontamente raccolti e predisposti per il funerale e la tumulazione, mentre i poveri venivano inumati nelle fosse comuni o dove capitava, addirittura se erano banditi parti del loro corpo venivano esposti per molto tempo nelle vie pubbliche della città come monito.

Si pensi ad esempio al noto rione palermitano dello Sperone che prende proprio il nome dalla presenza di una forca stabile in muratura che esisteva sino al XVIII secolo in questo luogo e che poi fu tolta perché i nobili, che si dirigevano verso Bagheria per la villeggiatura, venivano “rattristati” dal fatto «di vedere pendali dallo sperone appiccati a uncini di ferro membri di coscia e membri di uomini con bracci di cadaveri stati giustiziati...».

Eppure capitava di essere "ignobili" di nascita ma favoriti da un potente: «Il paggio del Viceré Caramanico, Emmanuele Caniggia, nipote del maestro di casa del Viceré Fogliani, uccise il marito di Rosalia Cangemi, figlia dell'aromatario del quartiere dei soldati. Rosalia, l'adultera, fu reclusa per due anni nella casa di correzione del Molo [...].

Il Caniggia venne condannato a morte. Il Viceré desiderava che fosse salvo, ma riuscì solo ad ottenere che il suo diletto paggio morisse more nobilium. Ebbe recisa la testa con la mannaia eretta nell'Ottangolo».

Tale evento provocò "mormorazioni" tra coloro che sostenevano «non potersi applicare il taglione a chi pei suoi natali meritava il capestro».

In sostanza, a Palermo, non solo per vivere ma pure per morire ci voleva la raccomandazione. E si sa, senza santi o, come in questo caso, Viceré, non si va in paradiso.

(Per approfondimenti sul tema confronta "La vita a Palermo cento e più anni fa" di Giuseppe Pitré; "Palermo Felicissima" Vol. III di Nino Basile pag. 391 e seg.; "Diari della città di Palermo dal secolo XVI al XIX" Vol. XIV di Gioacchino Di Marzo)
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