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Aristocrazia e popolo: il Carnevale a Palermo e quegli scherzi impensabili ai nostri giorni

​​​​​​​A Carnevale si deve ridere perché la gioia e il divertimento sono "atti rivoluzionari" ai quali, forse, non siamo più abituati. Ecco tre modi di vivere la festa a Palermo

Susanna La Valle
Storica, insegnante e ghostwriter
  • 11 febbraio 2021

Il Carnevale non è solo la festa con carri allegorici e figuranti. C’è quello vissuto in una dimensione più intima e famigliare. A ognuno il suo tempo rovesciato, dove tutto, o quasi, è consentito.

Non tutti però sono uguali, e partire da quello raccontato da Fulco di Verdura, agli inizi del secolo. Il Carnevale per la nobiltà era una cosa serissima, ogni dettaglio degli abiti era esaminato, considerati detestabili quelli acquistati nei negozi, seppur di classe come Nain Bleu di Parigi, era d’obbligo stupire e creare capi unici per i bambini.

La festa descritta nel suo libro, nella splendida casa della Contessa Mazzarino, ci svela così cosa fosse il Carnevale per l’aristocrazia cittadina.

Fulco descrive con accuratezza, abiti e bambini, dai "padroncini di casa" vestiti da figli di Carlo I d’Inghilterra, (abiti copiati dal quadro di Van Dyck), a Sofia Trabia vestita da Diana Cacciatrice in tunica verde, la soave Giovanna vestita da rosa, Igiea Florio da ballerina in tutù, e poi Fulco e la sorella Maria Felice.
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Gli abiti per loro furono ideati dalla nonna (Gramamà) e consistevano: per la sorella un abito da tulipano, tutti i petali di prezioso taffetà era dipinto a mano, con in testa un turbante e due lunghe maniche verdi per le foglie.

Per Fulco un "Incroyable" del Direttorio Francese (quei personaggi che dopo la rivoluzione furono famosi per le stravaganze che indossavano). Il vestito prevedeva una redingote con gilet di raso, parrucca e bicorno, un bastoncino e gli occhiali calati sul naso.

In queste feste era d’obbligo il ballo per i bambini (evento che prevedeva prove a casa con dei maestri). Fulco ricorda le lezioni di Cotillon (un ballo figurato del Settecento) ritenendo che come dama avrebbe avuto Giovanna, ma dopo un conciliabolo tra nobili mamme, la bella bimba fu destinata a uno dei padroni di casa, provocando le ire di Fulco, che ricorderà con rabbia la festa.

Se la Nobiltà aveva le sue feste esclusive, non era da meno l’alta borghesia cittadina. Emulando la classe da cui ereditò potere e ricchezza, nei decenni successivi, ripropose quasi gli stessi eventi.

Ricordo che da bambina per me il Carnevale a Palermo era un incubo. Mia mamma cercava di rifiutare tutti gli inviti, sapendo quanto fossi timida ed introversa. Erano feste orrende organizzate da genitrici, che prendevano la scusa dei figli per mettersi in mostra, tutto era lecito pur di surclassare le altre.

Ricordo che partecipai a una sola festa, con un vestito da olandese fatto arrivare da Amsterdam. La cuffietta in pizzo era così rigida che mi graffiava il viso, per non parlare degli zoccoli con cui era impossibile fare un solo passo. Fu indetto un vero concorso con giuria e presentatore.

Ricordo la tragedia alla proclamazione del vincitore e vincitrice, bambine che piangevano disperate singhiozzando e maschietti che approfittando dello scompiglio improvvisavano zuffe, utilizzando qualsiasi accessorio dalla loro maschera.

Cosa diversa il Carnevale nei quartieri popolari di Palermo.

La mia guida è sempre Vincenzo. Il suo racconto parte dall’ampio campionario di prodotti che erano venduti in cartoleria: dalla famosissima puzzolina, fialetta dall’odore nauseabondo, che era buttata nei negozi affollati; la “piritiara" una busta di gomma che messa sulla sedia, produceva per chi si sedeva, un inconfondibile rumore.

La bustina di “manciaciumi” una polverina che sulla pelle provocava un prurito così forte, che l’ unico rimedio era immergersi in acqua, e l’immancabile starnutina. Vincenzo mi racconta che pochi si potevano permettere un vestito, alla maggior parte dei bambini bastava una mascherina sottile di carta, tenuta da un elastico.

Se questi "prodotti" erano divertenti, lo erano di più gli scherzi che coinvolgevano l’intero quartiere. Il più famoso a Ballarò era quello del cappello.

«Facevamo scendere un fil di ferro con una molletta, dai fili che collegavano i balconi. Un complice, quindi, aspettava qualcuno con il cappello e con destrezza attaccava la molletta al copricapo - racconta -. Gli facevamo fare qualche passo, e poi dall’alto tiravamo il fil di ferro, il poveretto cercava di acchiappare il cappello che di volta in volta si alzava e allontanava. Dai balconi tutti si affacciavano e ridevano.

Altro scherzo era far penzolare dal balcone una calza di nylon con dentro un grosso arancio, lo scherzo consisteva nel colpire le teste di amici e conoscenti. Noi ragazzi ci divertivamo tantissimo, un po' meno il mischino che toccandosi la testa si metteva a fare voci».

Tra gli scherzi poi c’era quello chiamato “assicuta fimmina”, era una girandola che correva per la strada, gettata tra le gambe delle donne, che fuggivano inseguite dall’oggetto. Ma gli scherzi non si limitavano alle strade, madre e padre di Vincenzo li organizzavano anche per i loro 11 figli.

«Mia mamma preparava le cotolette, ma oltre alla carne, tagliava, impanava e friggeva anche un pezzo di sacco - spiega Vincenzo -. Preparati i panini per tutti, erano risate da morire quando il malcapitato provava ad addentare un panino da cui usciva un pezzo di iuta. Altro scherzo era quello di mio padre: comprava un vassoio di sciù pieni di ricotta e con mia mamma ne svuotava alcuni, riempiendoli di cotone. Non erano riconoscibili, perché imbrattati di ricotta. Era buffissimo vedere qualcuno con in bocca il cotone».

Sono scherzi impensabili ai nostri giorni, difficili da accogliere con la stessa accondiscendenza. Certo confrontando questi tre modi di vivere la festa, difficilmente qualcuno sceglierebbe i primi due.

A Carnevale si deve ridere, una conquista di libertà e riscatto, dove la gioia e il divertimento sono "atti rivoluzionari" ai quali, forse, non siamo più abituati.
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