LE STORIE DI IERI

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Cose “borbonesche” del 1862, la notte dei pugnali a Palermo

  • 30 aprile 2007

“Fatti orribili funestarono ieri sera la città di Palermo: una mano di accoltellatori sbucava da diversi punti e quasi alla stessa ora, ed in breve ben dodici vittime cadevano sotto il coltello dell’assassino. Le ferite sono tutte di arma da punta e taglio, quasi tutte al basso ventre: i feriti danno tutti gli stessi contrassegni dei feritori, i quali vestivano ad un sol modo, erano di pari statura, sicchè vi fu un momento che si potè credere essere uno solo l’assassino”. Così il “Giornale Officiale di Sicilia” del due ottobre 1862 cominciò a presentare il caso che fu subito noto come “la strage dei pugnalatori”. E della quale in verità furono vittime del tutto innocenti quattordici palermitani accoltellati, alcuni mortalmente, tra i Quattro Canti, Piazza Garraffello, Piazza Caracciolo e certe stradine prossime alla Kalsa. Opera materiale di malviventi affamati e tutti di bassa manovalanza che in verità per pugnali usarono ordinari coltelli da quattro soldi come il piccolo“scanna becchi” subito sequestrato a uno dei maldestri sicari. Comunque un caso storico inquietante che destò l’interesse di Leonardo Sciascia il quale in una lucidissima ricostruzione evidenziò come proprio in quel momento, nel nuovo e fragile stato unitario, si stesse già inventando la “strategia della tensione”. Per una destabilizzazione, cioè, da perseguire in vista di un sia pur velleitario tentativo di restaurazione borbonica. Come indicarono le precise caratteristiche degli attentati che – messi in atto da tre squadriglie di “terroristi” - in istruttoria e in corte d’assise presentarono sorprendenti modalità e caratteri comuni agli episodi certo più orrendi ma egualmente oscuri che funestarono i nostri anni della democrazia abusata e tradita. E anche in questo caso fu determinante il ruolo di un ambiguo collaboratore di giustizia “ante litteram”. Il trentottenne Angelo D’Angelo, ex facchino di dogana e ciabattino o lustrascarpe, che fu subito inseguito e catturato con in tasca un coltello insanguinato. Personaggio strano, ex collaboratore della polizia borbonica, che alcuni parenti definirono folle. Eppure furono essenzialmente le sue dichiarazioni a incastrare gli altri “amici” indicati con nome e cognome nella sua molteplice chiamata di correo. Furono infatti sue le accuse che valsero la ghigliottina a Pasquale Masotto, Gaetano Castelli e Giuseppe Calì, ritenuti i capi delle squadriglie di pugnalatori in azione quella notte.

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Gli altri otto imputati ebbero la pena dei lavori forzati a vita, mentre D’angelo se la cavò con la unanime reputazione di “sbirro e infame” - altra nota di attualità del caso - e con venti anni di galera. Che se non furono pochi non furono nemmeno molto, considerate le pene erogate a quanti vennero con lui assoldati dai ricchi finanziatori dell’impresa. Nobili che, se non rimasero del tutto in ombra sotto l’aspetto di congiurati del cosiddetto partito borbonico, furono sommariamente indicati come “teste grosse che s’intrigavano di cose borbonesche”. Comunque l’istruttoria non mancò di mettere in luce un esemplarmente vasto e inquietante campionario d’umanità locale. Nel quale, insieme a numerosi ecclesiastici di vario rango, figurarono un certo Orazio Mattania, doppiogiochista e infiltrato tra gli imputati carcerati, di un genere che non mancò ai processi che si tennero dalla strage di Piazza Fontana in avanti. E al quale si unì un malfido ispettore al comando di un importante mandamento di polizia cittadino. Nè va taciuto il fatto che nessuno dei feriti seppe riconoscere in Assise il proprio pugnalatore. Quanto ai patrizi mandanti che finanziarono l’impresa, furono fatti i nomi di due principi. Su uno dei quali si potè indagare fino ad un certo punto. Gli scoprirono strane cose in casa, sicuramente meritevoli d’altre indagini. Ma gli “insabbiamenti” non sono invenzione d’oggi. Mentre il principe tirato in ballo anche lui dal D’angelo era pure senatore del regno e qui addirittura rappresentante del Sovrano nelle ricorrenze ufficiali, con quel che ne seguiva. Insomma, anche allora i mandanti rimasero esemplarmente nell’ombra. E “Il Precursore” del 22 gennaio 1863, giornale politico d’opposizione, esternò una conclusione sinistramente profetica alla stregua dei nostri anni di piombo e dintorni: “Dopo la condanna siamo ancora più al buio di prima. E la mente direttrice dell’opera micidiale può tuttavia ritenersi nascosta, irriderci e spaventarci con nuovi assassini”.

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