LE STORIE DI IERI

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Polifemo non abita più qui

  • 15 marzo 2005

Nell’immaginario collettivo di molti palermitani, i ciclopi della tribù di Polifemo o almeno certi giganti della stazza dell’omerico pastore furono a lungo tra i primi abitanti dell’Isola. E in assenza di credibili paleontologi la favolosa ipotesi ebbe conforto, per quanto riguarda il territorio del Capoluogo, dal rinvenimento di cospicue stratificazioni di grandi ossa e di incredibili parti di scheletri rinvenuti da sempre nelle grotte e alle falde dei nostri monti Grifone, Cuccio e Billiemi. Reperti molto belli per le colorazioni dovute ai secolari contatti con gli elementi chimici della terra che li ricopriva. Accadde così che dalle ossa dei presunti giganti si ricavarono al tornio soprammobili, utensili dell’uso quotidiano, molti giocattoli a basso costo e perfino i manici di bastone per gli elegantoni di tutto il nostro Settecento. Finché la polizia borbonica non intervenne a contrastare l’uso improprio dei reperti ritenendoli degni di più attenti esami da effettuare nel museo di storia naturale dell’Università. E finchè, nel 1830, Antonino Bivona Bernardi non scrisse autorevolmente sul Giornale Officiale di Palermo che le grandi ossa erano di sicuro fossili appartenenti in gran parte a ippopotami ed elefanti.

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A quel punto non mancò chi parlò del ritrovamento dei resti di elefanti cartaginesi impiegati militarmente nell’Isola o di ippopotami morti nelle naumachie che si sarebbero svolte nel lago artificiale e regio sollazzo di Maredolce, nella contrada dove ora sorge Brancaccio. Ciò perché i giacimenti più abbondanti di tali insolite ossa furono trovati proprio alle falde del monte Grifone e dentro una grotta ingiustamente ora trascurata, profonda trenta metri, alle spalle della fatiscente chiesa di San Ciro (nella foto). All’inizio dell’autostrada per Messina. A poche decine di metri dal punto in cui da tre superstiti archi in mattoni rossi, forse d’origine romana, sgorgavano le sorgenti con le quali emiri e re normanni crearono il pescoso bacino che dall’incombente monte Grifone arrivava al Castello ora seminascosto da una platea di baracche. La favola dei nostri giganti della montagna fu definitivamente privata di ogni fondamento dall’abate Domenico Scinà al quale nel 1831 la Reale Tipografia di Guerra pubblicò un “Rapporto sulle Ossa Fossili di Mardolce e degli altri contorni di Palermo”. Assai apprezzato dai moderni studiosi di storia naturale che al religioso accreditarono anche il ritrovamento e la descrizione molto accurata di corna e denti di cervi e di altri animali nordici.

Oltre che dei resti di orsi giganteschi, lupi, maiali selvatici e iene. Ciò che dimostra come la Sicilia fu per millenni al centro delle migrazioni di animali che si spostavano verso l’Africa o verso il continente europeo passando proprio dalle nostre parti. Peraltro gli scavi condotti fino a qualche decennio fa tra Ciaculli e Maredolce hanno confermato in pieno le deduzioni dello Scinà. Mentre non possiamo chiudere queste note senza ricordare che grossi quantitativi di quelle preziose ossa sono andati dispersi addirittura dalle parti di Marsiglia. Per via d’una incredibile truffa locale del 1830. Quando non tardarono ad essere individuati alcuni esportatori di ossa d’animali macellati – resti che in Francia servivano, non sappiamo come, per la preparazione dello zucchero - i quali ritennero di potere impunemente e con vantaggio appesantire i carichi dei loro velieri. Proprio con i resti fossili degli ippopotami e dei buoi giganteschi cui non fu concesso di riposare definitivamente tra i futuri agrumeti di Brancaccio, preistoria a loro volta del sacco edilizio di Palermo e cari non soltanto a Goethe.

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