LE STORIE DI IERI

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Tredici vittime e una lapide sgrammaticata

  • 20 giugno 2005

Storicamente nessuno ha più dubbio sugli esiti determinanti che, ai fini dell’Unità d’Italia, ebbe la cosiddetta “Sommossa del Quattro Aprile”, i cui partecipanti furono convocati dalle campane della Gancia e che fu tragicamente capeggiata dal fontaniere Francesco Riso. Patriota palermitano al quale un omonimo barone aveva assicurato, con scarso successo, il necessario supporto da parte dell’aristocrazia antiborbonica. Ed è ormai nei testi di storia che la notizia dello scoppio di quell’insurrezione, insieme a quelle che davano per insorte diverse cittadine del contado, ebbe un peso preciso nella decisione di Garibaldi di sbarcare a Marsala poche settimane dopo. Quando però la polizia borbonica dell’odiatissimo Maniscalco aveva già portato a termine una delle sue più sanguinose repressioni. Della quale oltre allo steso Riso, che di ferite morì in ospedale, insieme a monaci e laici fecero atroce esperienza le 13 vittime cui – nell’omonima piazza – accenna un piccolo obelisco, privo di qualsiasi lapide leggibile che contenga almeno i nomi dei rivoltosi “moschettati” dopo la cattura. Che se poi di quei tredici patrioti non è nemmeno tanto facile conoscere i nomi, va detto che ciò è dovuto a cause spiegabili e inspiegabili. Tra queste ultime quella che non dà conto del perché il bel marmo, grande e finemente scolpito, con i nomi delle 13 vittime, vada lentamente profondando nel terriccio della navata più pericolante della cinquecentesca Chiesa scoperchiata dello Spasimo. Tra ben scolpite fronde di alloro e di quercia, vi si leggono infatti i nomi di “quei martiri veri della libertà conculcata” cui accenna l’epigrafe sottostante. Nomi che dalla lastra, là depositata chissà perché, trascriviamo: Cono Cangeri, Gaetano Calandra, Sebastiano Camarrone, Michelangelo Barone, Francesco Ventimiglia, Domenico Cucinotta, Nicolò Di Lorenzo, Pietro Vassallo, Giuseppe Teresi, Liborio Vallone, Andrea Coffaro, Michele Fanaro, Giovanni Riso. Forse la grafia di qualche cognome è errata? Forse non è stato rispettato l’ordine alfabetico? Non lo sappiamo. È certo tuttavia che l’ultimo nome era quello del padre del capo dei rivoltosi.
Per completezza di informazione va però detto che una ragione c’è se una lapide pure solennemente fatta apporre dalla Regione al monumentino di piazza XIII vittime è stata poi pietosamente lasciata sbiadire al punto di essere ora quasi illeggibile. Iscrizione che il “palermitanista” Gaetano Blandi ricopiò come segue nel suo “Palermo Enfatica”: «La gloria dei martiri da questa stele celebrata / nel cinquantennario del sacrificio/ il governo reggionale ravviva e riconsacra / a cento anni dall’eccidio che mutava le vittime in eroi».
Né dalla scritta tuttavia sbiadita è difficile evincere come l’ignoto scalpellino avesse ecceduto con le doppie consonanti, troppe anche nella ridondanza dello stile epigrafico. Strafalcioni che lo stesso Ente pubblico si affrettò a far coprire con altra lastra correttamente incisa. Ma che negli spostamenti poi subiti dal monumento, migrato da una parte all’altra della piazza, è andata perduta. Tanto che oggi, aguzzando la vista, è solo una sgrammaticata epigrafe che paiono essersi meritati quegli infelici patrioti. Mentre non resta che sperare che qualcuno dei regionali addetti ai lavori riesca a decifrare quelle righe non esaltanti. Per farle sostituire con un corretto seppur lapidario omaggio. Ad eroi che si auspica non rimangano ancora anonimi per quanti non hanno la consuetudine di passeggiare sotto la pericolante navata destra di Santa Maria dello Spasimo.

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