STORIA E TRADIZIONI
Costretta dal fratello a farsi suora: la ribelle siciliana che sposò il cugino e fu scomunicata
Una storia vera, quella di una donna costretta dal fratello a farsi monaca. Francesca decise però di sposare il cugino Salvatore e la coppia ebbe 4 figli. Ecco come andò
Il quadro di Lorenzo Lotto "Santa Lucia davanti al giudice"
Così scriveva lo studioso Giuseppe Testa nel 1976: "Donna Eleonora Francesca Lucchese, novizia nel monastero della Badia Nuova di Palermo, salvò la Famiglia e la discendenza dallo sfacelo, sfidando il mondo, i parenti, la chiesa, le istituzioni, e trionfando, grazie al suo coraggio, alla sua abnegazione, alla sua dignità".
L’avventurosa storia di suor Francesca Lucchesi Palli, riscoperta grazie a numerose ricerche d’archivio quasi mezzo secolo fa, si svolse nel XVII secolo, tra Palermo e Campofranco, piccolo paese dell’entroterra siciliano, al tempo di Filippo II di Spagna.
Francesca, nata nel 1627, era figlia cadetta di Don Fabrizio Lucchesi Palli, primo principe di Campofranco e di Eleonora del Campo, convolati a nozze nel 1613. Il 24 novembre 1631 don Fabrizio, veniva assalito da un morbo letale e dopo aver affidato i figli alle cure materne, in pochi giorni era spirato.
Il ragazzo, che era il secondo principe di Campofranco, aveva una personalità violenta e astiosa, non desiderava dividere con la sorella né il titolo, nè le sue ricchezze, né alcunchè. Aveva dunque deciso di rinchiudere Francesca, ancora bambina, nel monastero di Monte Oliveto di Palermo, detto la Badia Nuova, a poca distanza dalla cattedrale.
La fanciulla era rimasta reclusa per tredici anni, completando i suoi studi. A 18 anni, nell’estate del 1645, era tornata a Campofranco. In quel periodo anche gli zii, baroni della Delia Damisa e Camastra erano stati ospiti per alcuni giorni del fratello e la fanciulla aveva avuto l’opportunità di poter incontrare il cugino Salvatore.
Antonino aveva guardato con sospetto i due giovani, che sembravano scambiarsi languide occhiate e aveva disapprovato, sperando che gli zii andassero via al più presto. Terminate le vacanze si era adoperato perché Francesca tornasse in convento e ci rimanesse per sempre. Quando la giovanetta aveva fatto sapere al fratello, tramite interposta persona, di aver maturato il desiderio di uscire dal monastero, non avendo nessuna vocazione per la vita religiosa, Antonino si era infuriato.
Per Francesca, i successivi 5 anni erano stati anni d'inferno, era stata costretta a subire ricatti, minacce, persecuzioni, violenze psicologiche e fisiche, pressioni e intimidazioni di ogni genere da parte del fratello, che voleva fare di lei una monaca ad ogni costo.
Nel 1650, a 23 anni, trascorso il periodo di noviziato, Francesca, trattenendo per sé solo la dote monastica, aveva fatto rinunzia di tutti i suoi beni a favore del fratello e per vim et metu (forza e paura) aveva professato i voti solenni.
L’anno successivo, il 3 giugno del 1651, Antonino si era sposato nella chiesa di Santa Croce a Palermo con donna Flavia Alliata e Bellacera. Pochi mesi dopo le nozze però il Lucchesi si era gravemente ammalato e il 2 aprile 1652 era morto, lasciando tutto il patrimonio alla moglie Flavia, che astutamente aveva simulato di essere in attesa del sospirato erede, per poter essere nominata dal marito, nel testamento, erede universale.
Antonino, che lasciava alla sorella Francesca solo 50 onze (per far celebrare una messa giornalmente, a suffragio della sua anima) e un quadro della Madonna, era stato sepolto in fretta nella cripta della chiesa di San Giuseppe dei Teatini. Solo sette mesi dopo, Flavia Alliata, vedova inconsolabile, si era risposata con Antonio Romano Colonna, duca di Reitano.
Francesca, dopo la morte del fratello, si era sentita libera da ogni impegno preso in precedenza contro la sua volontà e aveva deciso di rimettere in discussione la sua professione di fede, estorta con la violenza.
Probabilmente l’aveva resa ancora più ferma e risoluta nella sua decisione l’incontro, dopo tanto tempo, nel parlatorio del monastero, con il cugino Salvatore, che era andato a farle visita, avendo saputo della morte di Antonino. Più che le parole avevano parlato i loro occhi: lei non lo aveva mai dimenticato e gli aveva confidato le sue speranze.
Aveva bisogno del sostegno di Salvatore perché la badessa Suor Agnese Maraschino e l’Arcivescovo Rubio di Palermo le erano diventati ostili e perché tanti erano i parenti, che volevano mettere le mani sull’eredità di Antonino: Flavia Alliata, sua cognata; il cugino Gaspare M. Fardella, figlio della zia Caterina; Don Stefano Riggio, Donna Porzia Guascone, Salamone e del Campo e donna Lucrezia Susinno e Campo: tutti parenti per discendenza dei Campo.
L’interesse precipuo era che Francesca rimanesse monaca di clausura, ma la giovane donna non si sarebbe arresa facilmente. Con l’aiuto di una suora che teneva le file con l’esterno si era potuta incontrare con l’avvocato Filippo Cammarata. Gli aveva chiesto per prima cosa di farle ottenere la nullità della sua professione e poi di farle riconquistare il patrimonio che le spettava.
A Palermo ormai tutti conoscevano la storia e le disavventure, il coraggio di Francesca e il popolo era schierato dalla sua parte. Il 28 maggio 1657 veniva dichiarata nulla la professione di fede della Lucchesi.
La badessa chiese alle monache della Badia Nuova di fare ricorso, per proseguire la causa a difesa dell’onore del convento, ma 39 religiose, coraggiosamente, decisero di astenersi, affermando che non avevano nulla da dire, e appoggiando quindi Francesca.
Salvatore, solo pochi giorni dopo l’annullamento della professione, aveva chiesto a Roma la dispensa necessaria per sposare la cugina. La licenza era arrivata nel 1658, ma per somma disgrazia dei futuri sposi, a causa della partenza del Vicerè, il governo del regno era stato affidato all’Arcivescovo, che non poteva certo dimenticare l’offesa che l’ormai ex suor Francesca aveva inflitto alla chiesa palermitana.
Rubio aveva iniziato un gioco crudele, ordinando in segreto, da una parte, che si bloccasse la benedizione ecclesiastica e che venisse proibito a tutti i parroci di sposare i due cugini, mentre dall’altra prometteva a Salvatore e ai suoi parenti d’informarsi come mai non arrivava la dispensa da Roma e così prendeva tempo.
L'11 maggio 1658, anticipando la storia di Renzo e Lucia ne "I Promessi Sposi", Francesca e Salvatore si erano presenti nella chiesa di San Giacomo alla Marina (oggi non più esistente) e davanti a Don Francesco Pizzi, il parroco, colto di sorpresa, e ad alcuni testimoni, avevano pronunciato la formula che li rendeva marito e moglie.
Le cose erano andate pressappoco così: "Bisogna aver due testimoni ben lesti e ben d'accordo. Si va dal curato: il punto sta di chiapparlo all'improvviso, che non abbia tempo di scappare. L'uomo dice: signor curato, questa è mia moglie; la donna dice: signor curato, questo è mio marito. Bisogna che il curato senta, che i testimoni sentano; e il matrimonio è bell'e fatto, sacrosanto come se l'avesse fatto il papa. Quando le parole son dette, il curato può strillare, strepitare, fare il diavolo; è inutile; siete marito e moglie». (I promessi sposi, Capitolo VI)
Sebbene celebrato contro la volontà del parroco il matrimonio era valido a tutti gli effetti: l’atto di matrimonio sarebbe stato infatti registrato nel 1661. L’Arcivescovo Rubio, venuto a conoscenza del matrimonio a sorpresa, come prelato aveva scomunicato Francesca e Salvatore e come presidente del Regno ne aveva ordinato anche l’arresto.
I due giovani erano stati costretti a fuggire in Spagna. Quando era nato il primo figlio non era stato permesso loro di battezzarlo. Nel 1659 la Corte di Madrid aveva inviato in Sicilia un nuovo Vicerè, che era entrato subito in contrasto con l’Arcivescovo.
La lotta era stata di breve durata: alla fine Rubio era stato costretto a lasciare Palermo e questa era stata la fortuna di Francesca e Salvatore, che avevano fatto immediatamente pervenire il loro ricorso al Vicerè. Questi aveva permesso loro di poter ritornare a Palermo e li aveva rassicurati, non avrebbero ricevuto alcuna molestia dai ministri della Corte arcivescovile.
Il matrimonio fu riconosciuto come valido e registrato dal parroco. Francesca, avendo annullato la professione ed essendo legalmente sposata con Salvatore, aveva avanzato allora al Tribunale della Regia Gran Corte Civile la richiesta di rientrare in possesso del suo patrimonio.
Tutti i parenti che avevano accampato pretese di vario tipo vennero alla fine escluse nell’asse ereditario. La coppia prese possesso della Baronia della Grazia nel 1663 e Francesca divenne terza principessa di Campofranco nel 1668.
La coppia ebbe 4 figli. Francesca morì il 24 ottobre 1683 e stabilì di esser sepolta nella cripta della Chiesa di San Giuseppe dei Teatini a Palermo. Suo marito Salvatore morì il 18 agosto 1694 e per testamento chiese di essere sepolto accanto all’amata consorte, nel medesimo sarcofago di marmo. Purtroppo dei loro resti mortali oggi non resta più alcuna traccia.
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