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Dal vino raffreddato "a neve" allo zafferano: le radici (antiche) dell'ospitalità in Sicilia

L'ospitalità conviviale è un sentimento innato nei siciliani e lo testimoniano, tra descrizioni di pranzi luculliani e ricette, i viaggiatori stranieri già a partire dal '700

Annamaria Grasso
Insegnante e storica dell'alimentazione siciliana
  • 18 aprile 2023

Dolci tipici siciliani

Se le vostre tavole pasquali imbandite vi sono sembrate pantagrueliche, leggete qui e fate la differenza. L'ospitalità conviviale è certamente un sentimento innato nei siciliani e lo testimoniano, tra descrizioni di pranzi luculliani e ricette, i viaggiatori stranieri, protagonisti del Grand Tour, che visitarono la Sicilia tra ‘700 e ‘800.

Primo fra tutti, Jean Baptiste Labat, domenicano, visita Messina nel 1711 e racconta così il pranzo al convento dei domenicani di San Girolamo presso i quali soggiorna quattro giorni: "Il pane era buono, si serviva il vino al ghiaccio, ovvero alla neve entro grandi brocche di legno cerchiate di cuoio rosso con un gran becco della medesima materia (…); chiedemmo dell’acqua e ci si disse che ci saremmo lavate le mani dopo pranzo.

Tuttavia il vino ne chiedeva perché era di una forza straordinaria. Il pesce che ci venne servito di cinque o sei qualità era servito con zafferano: di zafferano sapeva anche quello fritto; ci vennero serviti meloni e frutta eccellenti (…) “.
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Il pranzo si chiude con servizio di caffè e cioccolata in camera. E supplemento di… cimici in abbondanza.

“Ci vennero servite la domenica per antipasto due cipolle bianche di buona grossezza con una salsa di zafferano: ne aprii una e la trovai tutta riempita di carne tritata, con pinoli, uva di Corinto, coriandolo e scorza di limone candita. Questa portata mi parve straordinaria.

Era un pasticcio molto delicato, molto ben condito, che non aveva per crosta che tre involucri di una cipolla bianca. Dopo di questo piatto ci venne servita una minestra di vermicelli coperta di cannella battuta; quindi una fetta di petto di manzo lardellata, tenera e cotta come si deve.

Credo che questo pezzo pesava quasi cinque quarti di libbra. Ci venne servita in seguito una grossa fetta di melone, e del formaggio.

Questo era il pranzo ordinario della Comunità, al quale venne aggiunto per il mio compagno e per me un pezzo di vitello arrosto che sarebbe bastato per quattro persone di buon appetito.

La cena della sera è molto più frugale e quale si conviene in un paese caldo”.

Le parole di padre Labat sono una miniera di informazioni sullo stile di vita e l’economia della nostra isola all'epoca! Ci racconta del vino raffreddato con la neve conservata, per gli approvvigionamenti nella lunga stagione calda siciliana, nelle neviere, vere e proprie ghiacciaie sull’Etna; apprezza la robustezza dei vini siciliani.

Testimonia la coltivazione del prezioso zafferano nella descrizione dell’abbondante uso che se ne fa in cucina; scrive dell'antipasto, consuetudine non del popolo (che non aveva bisogno di stuzzicare l’appetito!) ma della nobiltà; e infine, ahimè, non fa sconti alla scarsa igiene del convento.

Un altro viaggiatore, Hill Brian, con il fratello sir Richard e il nipote, è ospite a pranzo dal vicerè Caramanico (1775) a Palermo.

Il reverendo Hill riferisce: “Fummo a tavola in venti e fummo serviti con grande stile e magnificenza. Fra la varietà di tante cose buone, ci fu del ponce ghiacciato e della birra scura inglese”.

Al convento di San Martino, inoltre, fu offerto dai monaci un pranzo memorabile: “ci preparammo a consumare uno splendido pranzo consistente di due portate e un dessert serviti abbondantemente con vino dal maggiordomo. Prima portata. In terrine sono sistemate salsa, maccheroni e formaggio, bollito, un pasticcio di beccacce, vol-au-vent e piatti diversi specialmente di pasticceria.

La seconda portata è composta di triglie, cacciagione, arrosto, un pudding fatto di pistacchi. Seguì un dessert di diciassette elementi, fra i quali vi furono due piatti con sottili fette di prosciutto crudo, uno di alici, uno di formaggio, uno di finocchi, e uno di sedani; vennero dopo i gelati e infine il caffè.

Questo per la mortificazione e l’abnegazione dei nostri nobili religiosi”.

Anche in questo scritto troviamo interessanti notazioni sulle influenze straniere nella cucina siciliana: ponce, pudding, birra scura inglese ci parlano della significativa presenza britannica, sia politica che economica, in Sicilia.

E il reverendo Hill non risparmia un commento sarcastico sulla “frugalità" dei frati. Ancora: è rimasta celebre la descrizione che fece l'inglese Patrick Brydone di un pranzo offerto nel giugno del 1770 dalla nobiltà di Agrigento al proprio vescovo: “A tavola eravamo esattamente in trenta, ma sulla mia parola non credo che i piatti siano stati meno di un centinaio.

Erano tutti guarniti con le salse più succulente e delicate. Non mancava nulla di ciò che può stimolare e stuzzicare il palato”. Tra le portate, quelle che più colpirono il viaggiatore inglese furono le murene e il fegato di polli fatto ingrossare a dismisura.

A un certo punto del banchetto ci fu un interessante scambio eno-gastronomico perché gli invitati britannici furono pregati di preparare un ponce, bevanda di cui in Sicilia si era sentito parlare ma che non si era ancora assaggiata. L'accoglienza fu entusiasta, ma l'incredibile pranzo aveva in serbo altre sorprese.

Al momento dei dessert, continua il cronista anglosassone, “uno dei camerieri offrì al capitano il simulacro di una bella pesca e questi, impreparato a qualsiasi inganno, non dubitò affatto che si trattasse di un frutto vero. Tagliatala in due, se ne cacciò subito in bocca una grossa metà... ma tosto il freddo violento ebbe la meglio ed egli cominciò a rotolare la pesca da una parte all'altra della bocca, con gli occhi che gli lacrimavano; finché, non potendone più, la sputò nel piatto imprecando: "Una palla di neve dipinta, (…)!".

Un foie gras di pollo (francese), un ponce (inglese), un sorbetto (arabo) ci ricordano le parole di Andrea Camilleri sul melting pot culturale che caratterizza la Sicilia, “frutto gioiosamente bastardo di tredici dominazioni, dalle quali abbiamo preso il meglio e il peggio".
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