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È in "Costanza" su Rai 1, la vedi ne "L'arte della gioia": i centomila volti di Eleonora

Il suo primo ruolo al cinema è stato Betty in “L’ora legale” e da lì non si è più fermata spaziando da ruoli più leggeri fino ai più impegnativi anche "diretta da grandi donne"

Tancredi Bua
Giornalista
  • 1 dicembre 2025

Eleonora De Luca (foto di Maddalena Petrosino)

Quando si parla del mestiere dell’attore, il sentire più comune, la credenza più diffusa, è forse che questi sia un mezzo per trasformarsi in altro, un altro che viene calato davanti a una macchina da presa, o su un palcoscenico, dando vita a un film o uno spettacolo, creando personaggi più o meno iconici che vivono storie più o meno coinvolgenti.

Ma la strada dell’attore, quando affrontata immergendosi in acque più profonde, può essere in realtà una lente per interpretare il mondo, per conoscere i segreti più reconditi della mente umana, per capire a pieno sé stessi e scoprire, come scriveva Shakespeare e rispolverava Elvis in una vecchia canzone, che «il mondo è un palcoscenico, e tutti devono interpretare una parte».

La pensa così Eleonora De Luca, attrice, nata a Palermo, classe 1993, recentemente davanti la macchina da presa per l’esordio alla regia di Stefania Rocca, “L’ora di tutti”, a inizio anno co-protagonista, al fianco di Miriam Dalmazio, della serie televisiva “Costanza” su Rai 1, diretta da Valeria Golino ne “L’arte della gioia”, da Emma Dante ne “Le sorelle Macaluso” e da Ficarra e Picone nel film che rappresentò la sua prima volta al cinema, peraltro come protagonista femminile principale, “L’ora legale”.

«Cerco di darmi ogni giorno una risposta sul perché io voglia fare l’attrice – dice la De Luca – . Posso identificare il momento in cui mi sono innamorata della recitazione. Mia madre al liceo mi iscrisse a un laboratorio teatrale, e quando in quinta superiore s’è creato lo scenario per cui dovevo capire cosa fare nella vita dopo la scuola, sapevo di volere fare arte, l’avevo compreso nei due anni passati al laboratorio». Del resto, come racconta lei stessa, era sempre stata «una bambina interessata all’arte».

Suo padre è un amante del cinema, sua madre del teatro, «culturalmente sono sempre stata molto suggestionata, e ho sempre avuto un interesse nell’esplorare la psiche umana. Ho fatto il liceo psico-pedagogico, stavo già andando verso l’esplorazione della mente. Adesso vivo il mio mestiere come un approfondimento costante delle possibilità dell’essere umano, proprio per questo penso che rientri fra i lavori che almeno per il momento non possono essere sostituiti dall’intelligenza artificiale».

Finito il liceo, fu l’Istituto nazionale del dramma antico di Siracusa a farle muovere i primi passi nel mondo della recitazione teatrale. «Già al secondo anno – racconta la De Luca – fui scelta da uno dei miei insegnanti, Andrea Battistini, che mi notò a scuola e mi chiese di fare il mio primo spettacolo da professionista, che era una sua riscrittura della “Lisistrata”, al Teatro Stabile di Brescia. Fu il mio debutto ufficiale nel mondo dei professionisti, una di quelle cose per cui davvero devi aprire la previdenza all’Enpals (ride, ndr.). Da quel momento in poi il mio ritorno a scuola è stato diverso.

“Lisistrata” l’ho considerata una sorta di stage formativo, ma in realtà io mi sento molto in formazione tutt’ora. Sì, mi sento molto consapevole adesso, insegno come actor coach (col format “Svelarsi”, nato nel 2023 dalla mente della De Luca e da quella della collega attrice Simona Taormina, ndr.), ma ritengo che la formazione sia costante e imperitura, non mi basto mai, per me non è mai sufficiente».

All’Istituto nazionale del dramma antico si facevano i provini per le tragedie al teatro greco di Siracusa, «così dopo tre anni facevi piccoli ruoli, anche di una battuta, o le figurazioni. Quello già è un palco importante, hai davanti un pubblico di ottomila spettatori. Quando ho finito alla scuola, ho continuato senza sosta con gli spettacoli, mi sono trasferita a Roma e ricordo che qui feci il mio primo spettacolo in un teatro off, sono partita da lì e ho fatto poi i circuiti un po’ più grandi.

La mia prima preoccupazione, però, fu trovare l’agenzia. Tutti i professionisti ce lo dicevano, io mi ero preoccupata di agire tempestivamente e già durante il terzo anno di accademia m’ero attivata, in maniera del tutto improvvisata. Non c’era nessuno che mi desse consigli, mandai video e curriculum a tutte le agenzie di Roma, mi risposero in tre, una di queste è diventata la mia agenzia». E poi cominciarono i provini per il cinema e la televisione: «Non vedevo l’ora di farli, la macchina da presa era un codice nuovo ma m’interessava esplorarlo». Entro il primo anno con l’agenzia, la De Luca beccò i primi «lavoretti»: un paio di pose sparse tra le serie “Il commissario Maltese” e la terza stagione di “Braccialetti rossi”, ma «il grande debutto fu “L’ora legale” di Ficarra e Picone.

I ruoli in cui avevo recitato sino a quel momento erano bei personaggi ma esaurivano la loro vita in quelle brevi apparizioni. “L’ora legale” è stato il primo prodotto cinematografico. In altri film ero arrivata, per un anno, sedici volte in finale, ma non ero mai uscita vincitrice. Ero disillusa. Anche il provino de “L’ora legale” lo feci sì in maniera tranquilla, ma senza aspettarmi di passarlo. Ancora oggi è un mantra che mi ripeto sempre quando faccio i provini: tranquilla e disillusa. La cosa più faticosa, per un attore, forse è mantenere l’attitudine al gioco e al divertimento costante, nella vita quotidiana uno lo fa in rilassatezza, ma se sei un interprete, l’attitudine al gioco e al divertimento devi un po’ farle capitare “a comando”, inizi ad avere un rapporto diverso con il tuo stesso psichico, e per certi versi inizi a ragionare in termini molto più pragmatici».

È questo il lato forse più magnetico del mestiere dell’attore, che la De Luca coltiva quotidianamente su due piani: per interpretare i ruoli che le vengono proposti e per capire con quale ruolo è meglio affrontare la vita giornaliera. «Sicuramente il mestiere dell’interprete mi aiuta – dice – ed è per questo che mi piace anche molto insegnarlo, è liberatorio. Io penso che in generale, però, bisognerebbe sanamente disaffezionarsi dall’idea preconcetta che si ha di sé. Abbiamo spesso una narrazione di noi stessi che ci vincola, ci toglie possibilità, se questa cosa – pur consapevole del fatto che la vita sia un’incognita, un grande mistero – la sposti forse riesci a vivere meglio».

Riaffiora Pirandello, riaffiora la lava vulcanica che secondo il poeta girgentino a contatto con l’atmosfera si solidifica, diventa magma, e poi roccia, e da lì dimentica di essere nata da una forma che poteva assemblarsi con un altro schema, per incastrarsi meglio con le altre rocce o per rotolare più agilmente verso un’altra meta. «Sapere che questa è la strada mi dà una forma di salvezza per il mio lavoro – racconta la De Luca – ma anche per la mia vita personale. Il fatto di viverla pirandellianamente, di sapere che sono una, nessuna e centomila, di poter scegliere in quale ruolo mettermi quando mi serve avere una certa visione delle cose, è qualcosa che mi dà – e darebbe penso a chiunque – un minimo di governo. E alla fine non sei più vittima dello stesso racconto che ti fai di te stesso».

In breve, il dilemma di Truman Burbank, cioè Jim Carrey, in “The Truman Show”. «Che infatti è il mio film preferito – commenta l’attrice – . È diventato proprio il mio mantra perché ha un approccio filosofico al cinema». È giusto ricordarlo, nel caso in cui stiate leggendo e non lo conosciate, che “The Truman Show” è un’immensa metafora della vita, del potere che il mondo ha su un uomo convinto di non poter cambiare le cose, sin quando questi non s’accorge di essere in grado di cambiare approccio verso il sistema, e nota che a quel punto il sistema inizia a comportarsi diversamente davanti alla sua imprevedibilità, alla sua assenza di forma prestabilita, una forma che lo ricompenserà coi valori più alti – la libertà e la verità – quando egli deciderà di affrontare la sua più grande paura. «Poi c’è Bergman, che amo tantissimo.

Del suo “Fanny e Alexander” – racconta l’attrice – mi sono fatta stampare una maglietta con il fotogramma del bambino che a inizio film sta giocando con i pupazzetti di una specie di carosello. Ingmar Bergman mi ha fatto capire che il teatro si può portare al cinema, e il teatro per me è un’arma potentissima quando recito per l’audiovisivo. Il teatro porta con sé l’onirico, per essere di più del banale naturalismo che a volte il cinema mette in scena. In generale il mio cinema preferito è quello che si sposa col surrealismo, ad esempio Fellini. Sono ingorda di cinema, mi piace scoprire i generi e non ho grandi pregiudizi. Forse giusto con gli horror splatter non riesco tanto». E così come spazia da un genere all’altro quando deve scegliere con quale film nutrire la propria curiosità, la De Luca ha spaziato da un genere all’altro anche davanti la macchina da presa.

Dicevamo che il suo primo ruolo al cinema era stato quello di Betty in “L’ora legale”: «Avevo una grandissima ansia. Ancora non pensavo di meritarmi le cose che ottenevo, cosa che per fortuna ora non penso più – racconta l’attrice – . Avevo ansia ma, ovviamente, anche entusiasmo a palla. A quattordici anni avevo beccato Salvo per caso e avevo fatto una foto con lui, lui e Valentino sono figure iconiche per noi siciliani. E poi “L’ora legale” era una commedia scritta così bene, è raro che in Italia ce ne siano di questo livello, è quasi “francese” per vari punti di vista. Mi piaceva tantissimo legare il mio esordio a questo film, mi piaceva il ruolo, ero curiosissima. Una cosa che ho fatto, e di cui non mi pento, è stata cercare di essere sul set anche quando non giravo perché così potevo camminare tra i reparti e fare domande, ho capito tutto quello che era legato al meccanismo del set, facevo domande al fonico, guardavo le cose dai monitor in regia, mi sono creata un ABC del cinema che negli anni seguenti mi è servito tanto. Lavorare con Ficarra e Picone è stato bello perché è interessante vedere come processano le cose, sono due teste che si mettono insieme per farne una nuova. Ricordo che ero molto curiosa, molto ansiosa con una buona dose d’inconsapevolezza, ma metodica e iper-secchiona, studiavo le cose duecento volte per farle il meglio possibile». Finito “L’ora legale”, via di nuovo con i tanti provini «come se niente fosse mai successo».

La cosa comica, fa notare la De Luca, è che per un attore quando finisce un film «nessuno sa ancora che ci hai recitato, quindi di fatto è come se non l’avessi mai girato finché non esce in sala». Gli altri direttori dei casting, i registi, i produttori, nessuno sa bene come l’attore risulterà nel prodotto finito, e visto che “L’ora legale” era il primo film per Eleonora De Luca, i provini successivi le furono proposti senza che nessuno si fosse ancora fatto un’idea della sua persona. Cosa che, per certi versi, forse le permise di non essere «classificata» in una parte. «Di solito – dice la De Luca – c’è il rischio che un attore venga classificato in un ruolo dopo il suo primo film. Hai fatto un film comico? E allora devi farne un altro comico. Ne hai fatto uno drammatico? E allora vada per il drammatico».

Fortuna volle che per lei questo non accadesse, e che al contrario i ruoli offerti post-Ficarra e Picone fossero, paradossalmente, per due film drammatici: “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante e “Padrenostro” di Claudio Noce. «Io fatico a identificarmi in una parte – dice la De Luca – e ogni volta salto in un pianeta nuovo, con un ecosistema nuovo, mi devo sempre adattare, però questo mi ha portato ad avere un menù molto variegato, non sono un’attrice connotabile con un solo genere, penso di potermi trasformare molto. Succede tanto spesso, i miei look li stravolgono di continuo, i pareri dei direttori dei casting sono sempre frasi tipo “Tu hai un grande potenziale trasformabile”, cosa che ho maturato anche grazie a esperienze diverse. Pensavo di non poterlo fare, ma la psiche è un muscolo che si allena.

Per esempio nello stesso anno ho fatto “Costanza”, su Rai 1, venendo da “L’invenzione della neve” di Vittorio Moroni e “L’arte della gioia” di Valeria Golino, che sono due opere d’autore». In “Padrenostro” di Claudio Noce, anno 2020, Eleonora De Luca interpreta Ketty, una ragazza alla pari che vive in casa con il commissario Alfonso Le Rose, interpretato da Pierfrancesco Favino. Poco prima aveva avuto il ruolo di Maria ne “Le sorelle Macaluso” di Emma Dante, un ruolo che le aveva «confermato che, come avevo studiato a scuola di danza, il ritmo è tutto. “Le sorelle Macaluso” è un film basato sul ritmo e il ritmo è basato su ogni ingranaggio del collettivo. È un film che si basa sul gruppo. L’operazione più interessante è stata portare il ritmo del gruppo in funzione cinematografica, cosa che non si vede spesso in Italia, esplorando la potenza del femminile in una società patriarcale che è quella in cui vivono le sorelle Macaluso. Lavorare con Emma Dante è stato bellissimo, mi ha fatto capire che si può parlare con i silenzi. Io poi vengo dalla danza classica e in quel film ho avuto l’occasione di riportare nel mio personaggio questo lato, dato che Maria nel film vuole fare la ballerina. La coreografia che poi fa anche Simona Malato (che interpreta lo stesso personaggio da grande, ndr.) è venuta da me durante un provino».

Uno dei leitmotiv della carriera della De Luca è il lavoro sotto la direzione di «donne straordinarie, di grande carisma», come Emma Dante, Valeria Golino, Stefania Rocca. E può darsi che sia questo, in qualche modo, un riflesso dell’interesse verso l’universo dei diritti della donna che la De Luca reclama a gran voce: «Philip K. Dick, e tanti altri scrittori, ci insegna che laddove ci sono grandi resistenze (come quelle che in questo momento sono in atto nell’universo maschile non accettando, in certi casi, sino in fondo le battaglie dell’universo femminile, ndr.) ci sono grandi movimenti. Noi viviamo in un mondo storico scisso, da un lato c’è molta più informazione, ci sono molte più immagini, più presa di coscienza rispetto ad alcune tematiche che prima erano “sommergibili”, “nascondibili”, dall’altro c’è una grande voglia di tenere tutto sotto al tappeto.

Il mio mondo artistico guarda al futuro, l’ambiente che ho frequentato sinora è stato stimolante e ha considerato la donna nella sua reale posizione, cioè di una creatura che ha sempre avuto una grande forza e che ora si sente libera di poterla manifestare. Dall’altra parte c’è una crisi culturale nera per cui diventa più difficile esprimersi, un sintomo e contemporaneamente un’ulteriore causa di ciò sono i tagli annunciati al fondo per il cinema. È un periodo scisso, chi crede in certi valori deve continuare a cavalcare l’onda e rappresentarli. L’artista non può non parlare di certe tematiche, io questa cosa quando la vedo negli altri non la vivo bene». L’artista, secondo la De Luca, non è «un semplice esecutore. Io sono chiamata a interpretare la realtà.

Non dobbiamo per forza pensarla allo stesso modo, ma dobbiamo essere in grado di articolare il nostro pensiero, siamo rappresentanti dell’umano, abbiamo accesso a tutte le nostre maschere e allora a nostra volta dovremmo cercare di liberarle anche nell’altro. Se non mi manifestassi politicamente – il che non significa dire “Sono di sinistra” o “Sono di destra”, quanto dire se una cosa ha conseguenze negative o positive – sarei una mera esecutrice. Fare l’artista non significa essere non disturbante. Un artista deve disturbare. Ogni disturbo è provocazione, e se non è necessaria è sgradevole, ma ci sono volte in cui è necessaria per creare un futuro nuovo». Se guarda alla sua carriera, racconta la De Luca, «le cose non succedono per caso. Io mi auspico che un cambiamento reale accada nella società, ci voglio credere altrimenti smetterei di fare arte.

E il cambiamento in realtà accade, non da solo, di certo, ma con l’attivazione dell’essere umano. Non posso lasciare che la realtà mi scorra addosso. Anche semplicemente per vincere la lotteria, nessuno la vince se non gratta la schedina. E allora se c’è un’ingiustizia bisognerebbe esprimersi, così forse qualcuno si rivedrà nella persona che s’è espressa e s’esprimerà a sua volta. La storia si ripresenta ciclicamente perché dimentichiamo, e dimentichiamo perché non parliamo e facciamo finta di non vedere». Con questa visione del mondo, la De Luca – che sinora è stata attrice al cinema, in televisione e a teatro – vorrebbe affacciarsi al mondo dietro la macchina da presa: «Credo che andare verso la regia sia un processo verso cui sto naturalmente andando.

Mi è capitato di scrivere dei cortometraggi che non ho ancora realizzato, mi sono sempre interessata alla regia cinematografica. Ho un grande interesse nello scoprire le arti collaterali, la grande curiosità mi ha sempre connotata, se una cosa mi interessa devo saperne per forza di più. Mi sto anche sanamente disaffezionando dall’idea di fare cose che debbano necessariamente avere successo, inteso come soddisfazione personale completa. Mi piace sbagliare e poi perfezionarmi, ho sempre scritto poesie e ora sto cominciando a raccoglierle, chissà cosa succederà. Mi piacerebbe dirigere un cortometraggio o un film scritto da me, un bel distopico.

Sono affezionata a tutto quello che è distopico. Sono cresciuta con Philip K. Dick, con George Orwell, la mia serie preferita del momento è “Scissione”, amo il mondo di “The Matrix” e “The Truman Show”, tutto ciò che mette in gioco l’idea di realtà e che facendo riossigenare il cervello permette di accettare meglio la vita».

E più cose si fanno, più tutto confluisce in un unicum, un campo elettromagnetico in cui è impossibile separare le cariche positive dalle negative: «Chiaramente una cosa è la performance a teatro (dove sino all’anno scorso è stata con il “Guerra e pace” di Luca De Fusco, ndr.), un’altra è farlo davanti la camera. Ma le arti confluiscono, più ti sei abituato a trasformarti, più senti di essere congruo. Per assurdo tutto confluisce, e comincia a diventare noiosa la distinzione che può esserci fra il cinema e il teatro. Dall’esterno sembrano due cose differenti perché siamo abituati a classificare, ma confluiscono l’uno nell’altro. È chiaro che cambia la sensazione. Il teatro è adrenalinico e vuol essere cercato da me, il cinema è più intimo ed è lui che mi viene a cercare. Il teatro è uno slancio olimpionico verso l’esterno, il cinema è un moto verso l’interno che ti legge i pensieri che non vorresti fossero letti. Come se fossero un maschile e un femminile, che coesistono nella stessa persona».
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