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Era bella (ma soprattutto ricchissima): chi fu Maria Favara, la principessa di Villa Niscemi

Moglie del principe Valguarnera, apparteneva a una famiglia di nuovi ricchi. Nonna del famoso Fulco Santostefano, si dice abbia ispirato anche Tomasi di Lampedusa

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 1 febbraio 2024

Interno di Villa Niscemi

“Era stata una bellissima donna, secondo i canoni dell’Ottocento, ma quella che io rammento con tenerezza è una piccola signora piuttosto grassottella con un viso dai lineamenti assai fini sotto un alone di ricci nivei, vestita di nero in tutte le stagioni, un ventaglio in mano".

Così nel romanzo autobiografico "Estati Felici" Fulco Santostefano e Valguarnera duca della Verdura e Marchese della Cerda, artista e designer di gioielli di lusso della Maison Chanel, frequentatore del jet-set, ricordava la Granmà, la nonna Maria, e il tempo trascorso con lei durante l’infanzia dorata a Villa Niscemi.

L’edificio, oggi sede di rappresentanza del Comune di Palermo, nato come baglio agricolo, venne trasformato in raffinata abitazione aristocratica nel periodo della “lottizzazione” settecentesca della Piana dei Colli.

Il processo di trasformazione raggiunse il suo culmine nel XIX secolo, quando venne realizzato anche lo splendido giardino all’inglese. A curare la decorazione degli interni fu responsabile, dal 1881 fino alla morte, nel 1896, l’architetto GiovanBattista Palazzotto.
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Nel frattempo, dal 1875, Villa Niscemi era diventata la dimora stabile del principe Corrado Valguarnera Tommasi (1838-1903), VII principe di Niscemi e Duca dell’Arenella e della moglie Maria Favara (1850 – 1912).

Maria era una donna non solo bella, ma anche molto colta: parlava fluentemente diverse lingue, amava l’arte, la letteratura e la musica. Proveniva da una delle famiglie di nuovi ricchi che si erano affermate durante l’Ottocento, acquistando titoli oppure ottenendoli attraverso matrimoni con l’aristocrazia.

Corrado e Maria avevano avuto 4 figli, un maschio e tre femmine: Fulco era a sua volta figlio di una delle tre ragazze Valguarnera, Carolina, e di Giulio Santostefano della Cerda; era anche lontano cugino di Giuseppe Tomasi di Lampedusa (autore del romanzo Il Gattopardo) a cui aveva dedicato un ritratto, dipinto con ben poca benevolenza: non erano fatti per capirsi, Fulco e Giuseppe.

“Un altro lontano cugino” scriveva il duca della Verdura "che però vedemmo molto di rado, era Giuseppe Tomasi (poi di Lampedusa) … Figlio unico di una madre intelligentissima e vivace, era tutto il contrario della madre: grasso e taciturno, dai sonnolenti grandi occhi orientali, non amava i giochi all’aria aperta ed era timido con gli animali.

Nessuno avrebbe mai immaginato che in un lontano avvenire sarebbe diventato l’autore di un capolavoro, Il Gattopardo, nel quale i personaggi di Tancredi e Angelica sarebbero stati ispirati dai miei nonni materni».

Questa scarsa considerazione, non impedì mai tuttavia a Fulco di considerare il romanzo un vero e proprio capolavoro e di offrire la sua collaborazione al regista Luchino Visconti, durante le riprese del film a Palermo.

Del resto da bambino Fulco, era spesso insolente e capace di giudizi poco empatici, ricordava egli stesso ad esempio: "Mia madre, nata Carolina Valguarnera di Niscemi, non era veramente bella, ma aveva una taglia fine e slanciata, uno sguardo dolcissimo, un nobile naso borbonico e le mani più belle del mondo, mani bianche come l’avorio e coperte di anelli ….Era ancora giovane quando la sua folta chioma bruna cominciò a imbiancare…-Mamma perché non sei bella come Donna Franca Florio?- sembra sia stata la mia prima osservazione di bambino”.

Tornando invece alla nonna, Fulco rivendicava che i nonni Maria e Corrado erano stati modello e fonte d’ispirazione per i personaggi di Tancredi e Angelica nel capolavoro letterario del cugino Tomasi.

Il Gattopardo non è un semplice romanzo di fantasia, ma la biografia di un intero casato: mettendo a confronto la storia e la genealogia della famiglia Tomasi con le vicende del romanzo, emerge che i nomi e i destini dei personaggi corrispondono spesso a quelli dei familiari – più o meno lontani - dello scrittore.

Don Fabrizio Salina è immaginato sui tratti del bisnonno astronomo Giulio Fabrizio Tomasi (1815-1885) che sposò Maria Stella Guccia (1815-1886) e padre Saverio Pirrone, il gesuita dei Salina, è il cappellano di casa Lampedusa Francesco Saverio Pirrone (1810- 1889): Corrado Valguarnera sarebbe Tancredi Falconeri, mentre Maria e il padre Vincenzo Favara rispettivamente Angelica e Calogero Sedara (si noti anche l’assonanza tra i cognomi).

Angelica presenta effettivamente alcuni tratti in comune con Maria Favara, secondo il ritratto che ne ha fatto il nipote Fulco.Aveva sposato nel 1866 a sedici anni il suo principe garibaldino, unico nobile Palermitano che – come Tancredi nel romanzo – aveva preso parte alla spedizione dei Mille.

Maria, come Angelica, era bella ma soprattutto era un partito molto appetibile: aveva un enorme patrimonio, era infatti l’unica figlia di Vincenzo Favara Cacioppo e di Carolina Caminneci Schreiner.

Il padre Vincenzo, laureato in giurisprudenza, non aveva esercitato mai la professione forense, ma si era dedicato all’amministrazione dell’azienda agricola di famiglia, in contrada Firriatu a Partanna (Tp). Di idee liberali e antiborboniche, a Londra, aveva conosciuto il patriota Giuseppe Mazzini.

Aveva partecipato attivamente alla realizzazione dell’unità d’Italia, fornendo sostegno economico e uomini, durante lo sbarco dei Mille in Sicilia. Aveva assunto la carica di sindaco di Palermo, dopo l'entrata di Garibaldi nella città, e aveva ottenuto vantaggi economici e politici, per il suo appoggio alla causa dei Savoia, quali ad esempio l'elezione a deputato per la XII, XIII e XIV legislatura del Regno d'Italia.

Era riuscito ad ottenere persino il riconoscimento del suo casato, affermando di discendere da un ramo cadetto dei Favara di Salemi, baroni di Godrano: sperava che col tempo nessuno riuscisse più a ricordare le sue umili origini campagnole.

Favara apparteneva al numero di quei possidenti emergenti filosabaudi che avevano saputo volgere a proprio favore la situazione politica, dopo la cacciata dei Borbone.

Tomasi invece apparteneva alla vecchia aristocrazia, a un ceto che era stato economicamente e politicamente messo ai margini, dall’affermarsi della borghesia e di uomini come Vincenzo Favara (alias Calogero Sedara, dipinto come un parvenù senza eleganza, un arrampicatore sociale senza scrupoli, desideroso solo di acquistare un titolo nobiliare e un posto tra coloro che contavano).

Anche Fulco del resto affermava che i Favara erano una di quelle famiglie di parvenù che si erano affermate nel corso dell’Ottocento. Dunque Angelica e Tancredi sarebbero stati la trasposizione letteraria di Maria e Corrado Valguarnera: il condizionale è però d’obbligo, perché non bisogna dimenticare la lettera del 30 Maggio 1957 dello scrittore Tomasi di Lampedusa indirizzato all'amico Enrico Merlo di Tagliavia dove si legge.

«È superfluo dirti che il principe di Salina è il principe di Lampedusa, Giulio Fabrizio mio bisnonno; ogni cosa è reale: la statura, la matematica, la falsa violenza, lo scetticismo, la moglie, la madre tedesca, il rifiuto ad essere senatore.

Padre Pirrone è anche lui autentico anche nel nome. Credo aver fatto tutti e due più intelligenti di quel che veramente fossero. Tancredi è fisicamente e come maniere, Giò (Gioacchino Lanza Tomasi); moralmente una mistura del senatore Scalea e di Pietro, suo figlio.

Angelica non so chi sia, ma ricordati che Sedàra, come nome, assomiglia molto a Favara. Donnafugata come paese è Palma, come palazzo Santa Margherita (…)”. Infine, conclude Tomasi: “La Sicilia è quella che è; del 1860, di prima e di sempre. Credo che il tutto non sia privo di una sua malinconica poeticità».

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