STORIE
Era un quartiere a luci rosse in Sicilia, oggi è abbandonato: la storia (infinita) di Vallicaldi
Da decenni in condizione di abbandono, ha conosciuto una stagione di recupero urbano promossa da associazioni e cittadini. Cosa è rimasto di quella esperienza
Questa zona, questo grumo di stradicciole – via Giambertoni, vicolo Cannameli, discesa Boccerie, via Gallo – è identificata con il nome via Vallicaldi o, più semplicemente, Vallicaldi. Alcuni palazzi sono masticati dal tempo, altri crollati o sventrati. Le macerie, qua e là, fanno massa unica con i rifiuti. Non è un quartiere fantasma: la spazzatura, vecchia di mesi o anni, dappertutto, indica la presenza di qualcuno.
Da una salita proviene una donna, porta lattine di cibo per animali, va di fretta. «Devo dare da mangiare ai gatti prima che faccia buio» dice «perché nel vicolo dove abito non c’è illuminazione da un anno». La signora dei gatti, come la chiama qualcuno, spiega che «Gli spazzini non vengono da anni. La spazzatura viene ritirata due volte a settimana (nella zona non si effettua la differenziata, ndr), ma nessuno spazza. Viene qualche volontario a pulire, ogni tanto».
Ruggero Casesa possiede un bed and breakfast nella zona. «Il quartiere paga il prezzo dell’abbandono» spiega. È sorpreso che si possa provare sconvolgimento per lo stato delle cose. «Capisco che il Comune non possa prendersi carico di tutte le abitazioni; servono soldi, investimenti, mancano i privati».
Non è vero che Vallicaldi è un ghetto, dice, «è un luogo aperto, ci sono agrigentini, stranieri e turisti». Ma i turisti cosa pensano vedendo le macerie, i rifiuti…? «Ai turisti piace il paradosso, piace nella misura in cui il quartiere è vecchio, non piace nella misura in cui è sporco».
È corretta la definizione «ghetto»? Il termine, secondo Treccani, proviene da getto, cioè una fonderia che, con ogni probabilità, sorgeva nell’area di Venezia destinata nel 1516 agli ebrei espulsi o in fuga dal resto di Europa. Forse la parola, nel tempo, sfuggì di bocca e oggi indica spazi in cui abitano minoranze e persone che soffrono privazioni e mancanza di diritti.
Quando e in quali condizioni, allora, un pezzo di città cade nell’oblio? Qual è il momento in cui il passo dei cittadini inizia a evitarlo e lo sguardo a voltarsi dall’altra parte?
Vallicaldi è stato regolarmente abitato fino agli anni cinquanta-sessanta, con la presenza di attività commerciali e artigianali. Dopo la legge Merlin del 1958 e la chiusura delle case di tolleranza, il quartiere ospita alcune lavoratrici del sesso. Vallicaldi diventa, nella memoria (o nella vergogna) collettiva, quartiere a luci rosse.
Con il sorgere, o l’imporsi, delle periferie, gli abitanti cercano migliori e diversi spazi abitativi. Negli anni Novanta, i residenti rimasti sono pochissimi. Nel frattempo una comunità nordafricana, in particolare senegalese, si è radicata nella zona. Avvengono i primi crolli, la Protezione civile dichiara che alcuni immobili sono pericolanti.
Alcuni ingressi al quartiere vengono murati. Ma la città aveva già dimenticato quel che non voleva vedere. Nel 2013, alcuni cittadini si ricordano di Vallicaldi. Lo scrittore e futuro assessore al Centro storico Beniamino Biondi invia ai giornali locali un comunicato: «Non si può parlar di altro che di un ghetto costituito a deliberata metafora dell’intero fallimento di una città che ha destituito il suo centro storico sino a farne la peggiore periferia di sé stesso». La sua associazione, LabMura, prende sede in un immobile di vicolo Cannameli offerto da Ruggero Casesa.
Altre associazioni intervengono: Artificio, studio di artisti, e un gruppo di architetti riuniti sotto la sigla Nonsostare. Un cassonetto diventa simbolo (per quanto dei simboli spesso si abusa) di questo esperimento: un cassonetto, fornito dall’amministrazione comunale su pressione dei volontari, raccoglie la spazzatura finalmente e viene dipinto e trasformato in installazione.
All’epoca, come oggi, era in voga l’espressione rigenerazione urbana. Ad ascoltare i racconti dei protagonisti, il laboratorio sembra piuttosto un’operazione di ricostruzione: lavori di muratura e d’illuminazione elettrica, rimozione di lamiere, raccolta di rifiuti; poi arrivano i murales, le installazioni, la realizzazione di un giardino e gli eventi serali.
Tano Siracusa, fotografo e autore di reportage nel Sud del mondo – tra le sue destinazioni, Marocco, Madagascar, India e Brasile – espone le sue opere e documenta il lavoro sul quartiere; Dario La Mendola, oggi docente di Estetica che ha scelto di fare il giardiniere, organizza con Artificio una mostra: «La bellezza delle lacrime a pagamento»; i vicoli sono affrescati da opere di strada; Mister Thoms, artista e illustratore romano, tra i più importanti del paese, realizza un murale.
Ad Agrigento non succede mai nulla. Eppure agli albori del laboratorio Vallicaldi, i cittadini danno una mano, partecipano al progetto; alcuni abitanti nordafricani prendono parte agli incontri e i loro figli frequentano gli spazi delle associazioni per giocare; alla serata inaugurale del progetto partecipano l’amministrazione di allora, il vescovo e Annarella – una delle abitanti del quartiere più conosciute – in prima fila.
Tano Siracusa, a proposito delle prime due serate di festa, scrive sul blog Suddovest: «Almeno millecinquecento persone hanno invaso spazi disertati fino a un mese fa, spazi che erano caratterizzati dall’abbandono, dall’incuria, dai crolli, dal buio, anche dalla paura, e soprattutto dal tabù di una nostra “via del Campo” rimossa dal perbenismo cittadino».
La stampa locale segue la vicenda con costanza. Dario è perfino ospite di Fahrenheit, la trasmissione di RadioTre. Qualche giornale scrive di una rivoluzione culturale in corso (le rivoluzioni, tuttavia, hanno lo stesso destino dei simboli). A partire dall’anno successivo gli eventi iniziano a diminuire, fino ad azzerarsi. Nel 2015 finisce tutto.
«Vallicaldi è durato una stagione, come tutto ad Agrigento» racconta Dario. Secondo Beniamino Biondi il progetto intendeva creare un testimone che nessuno ha saputo o voluto raccogliere. Per Tano Siracusa si è trattato di «un’esperienza straordinaria» (in una città, va ricordato, in cui vige dogmaticamente l’ordinario) ma «della durata di un lampo». A detta di tutti gli intervistati, al laboratorio mancavano i fondi.
Vallicaldi, riemerso, affonda un’altra volta. Un anno fa, Tano Siracusa e altri cittadini, il gruppo Bac Bac, firmano un appello indirizzato al Comune per salvare la «nostra via del Campo». In questi giorni, i tentativi di contattare l’amministrazione e ascoltare il suo punto di vista non sono andati a buon fine.
Cosa resta di quella stagione, quasi dieci anni dopo? Da qualche mese, una delle sedi del laboratorio è diventata presidio di Tierra Techo Trabajo, o Ttt, un’associazione di promozione sociale. Uno dei fondatori, Mattia Grech, trentenne, si dice disponibile ad avviare un confronto con il movimento del 2013.
Ma quali sono i progetti di Ttt per Vallicaldi? «Facciamo associazionismo in modo professionale e ci occupiamo di reperire fondi, vogliamo avviare un progetto a lunghissimo termine» spiega Mattia «attività di advocacy, spingendo le istituzioni a intervenire, decoro urbano ed eventi che permettano l’autosufficienza economica e di reinvestire sul territorio».
Ttt sta elaborando insieme alla Caritas un report sociale, così da mettere a fuoco i problemi del quartiere, in vista di un tavolo di progettazione insieme ad abitanti, istituzioni, associazioni e privati. Conclude Mattia: «In quel quartiere vorremmo fare da sentinelle».
Oggi Vallicaldi, più che un ghetto, è un margine, una membrana tra due pezzi di centro: la via Atenea e piazza Ravanusella. La prima, come già detto, è uno dei luoghi agrigentini per antonomasia; la seconda è abitata in gran parte dalla comunità senegalese (la quale, il 7 ottobre scorso, nella stessa piazza, ha celebrato la festa annuale in onore di Ahmadou Bamba, padre della dottrina mouridiyya e della resistenza anticoloniale in Senegal).
Vallicaldi ospita entrambe le popolazioni, entrambe le minoranze. È un luogo di convivenza, ma non d’integrazione; attraverso questa membrana avviene il passaggio degli abitanti (pochi), ma non la loro osmosi. Proprio in questo luogo di dimenticanza e di culture sospese, forse, Agrigento, città dallo spirito vago, spesso grossolano, potrebbe ritrovarsi e, finalmente, scorgere gli indizi della propria identità.
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