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I "giovanastri garibaldini" di Agrigento: la rivoluzione nata a casa di una baronessa

È stata "giovane" la rivoluzione antiborbonica nella Città dei Templi. Come cominciarono, quei giovani, a parlare di politica e a svelare la loro insofferenza verso il regime borbonico

Elio Di Bella
Docente e giornalista
  • 14 novembre 2021

I garibaldini di Agrigento in una foto d'epoca

A Girgenti (l’odierna Agrigento) "a taluni giovinastri sorrideano i sogni dell'unità italiana", ha sottolineato lo storico agrigentino Giuseppe Picone, nelle sue celebri "Memorie storiche agrigentine".

È stata "giovane" la rivoluzione antiborbonica nella Città dei Templi e nella sua provincia già due secoli fa, nel 1821, in occasione del primo moto rivoluzionario in Sicilia.

E giovani furono soprattutto quelli che prepararono l’arrivo dei Garibaldini ad Agrigento. Così che, quando la colonna di camicie rosse al comando di Nino Bixio giunse nella Valle dei Templi, quei "giovinastri" si unirono ai garibaldini.

Ma chi erano questi giovinastri, come li definì Picone?

Tra loro troviamo innanzitutto Rocco Ricci-Gramitto, secondogenito del patriota agrigentino Giovanni, che morì esule a Malta, dove era stato costretto a riparare dopo i moti del 1848, che aveva guidato a Girgenti, insieme al generale Gerlando Bianchini e ad altri pochi coraggiosi.
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Nel 1860, all’arrivo dei garibaldini, Rocco aveva 28 anni, essendo nato il primo febbraio del 1832; aveva compiuto gli studi di Giurisprudenza a Palermo e, appena tornato a Girgenti, nascose le proprie simpatie per le idee mazziniane, che probabilmente aveva conosciuto nella capitale dell'Isola.

La polizia borbonica lo schedò e lo controllò a lungo. Vi era poi Gabriele Dara, nato a Palazzo Adriano (Palermo) l'8 gennaio 1826. Un italo-albanese che aveva compiuto gli studi nel Seminario greco-albanese di Palermo dove aveva conosciuto Francesco Crispi e poi all'Università di Palermo, dove fu tra gli animatori di un circolo politico- letterario antiborbonico.

Giunse a Girgenti su invito dello zio, il canonico Nicolò Dara e vi intraprese la carriera forense. Ricordiamo poi Stefano Pirandello (il padre del drammaturgo agrigentino), arrivato a Girgenti per curare gli affari della famiglia, originaria della Liguria, presto venne a contatto con i giovani cospiratori agrigentini.

Con tutti loro anche una donna, Caterina Ricci Gramitto, sorella di Rocco, sposa poi di Stefano Pirandello e quindi madre di Luigi, il grande drammaturgo.

Lei, con la madre e le sorelle cucì il vessillo tricolore, il primo apparso ad Agrigento.

Vessillo provocatorio che «animosi giovani agrigentini, guidati dal patriota Rocco Ricci-Gramitto, inscenando una finta gazzarra tra giovani per sviare l'attenzione del picchetto armato borbonico, stazionante nei pressi della piazzetta Purgatorio, lungo la via Atenea, a Girgenti, issarono in pugno alla statua che fronteggia la Chiesa di San Lorenzo, detta Purgatorio».

Beffarono così l’Intendente borbonico che fece subito iniziare le ricerche, minacciando severe punizioni.

Ancora oggi, a ricordo del fatto, esiste una lapide, affissa sulla facciata Chiesa di San Lorenzo, in cui si legge: «Nell'aprile 1860 / Animosi Girgentini del Risorgimento / Guidati dalla / profonda anima religiosa / Di nostra gente / Issavano per la prima volta / Il vessillo della Patria / In pugno a questa statua / Sul fronte sacro di questo tempio / All'ombra della Croce».

Erano i preparativi per un'azione più clamorosa: già nell'aprile del 1860 circolava a Girgenti la voce che in occasione della processione del Venerdì Santo sarebbe scoppiata la rivoluzione.

Scrive, infatti, lo storico Calogero Sileci che: «convenuto si fu che arrivata la condotta del Crocifisso dinanzi al Monastero di San Vincenzo, alquanti armati dovevano dar mano alla truppa di accompagnamento e quindi spingere il popolo a tumultuare.

Erano alquanti giovinastri di primo pelo che dovevano commettere l'attentato ma ne furono impediti dai magnati solo perché non ebbero con la posta notizie favorevoli».

C'è da giurare che tra quei giovinastri di primo pelo vi fossero diversi di quelli che abbiamo sopra menzionato.

Un percorso rivoluzionario nato insospettabilmente a casa di una baronessa, Rosalia Ficani.

Questa nobildonna raccoglieva nel suo salotto quella che considerava la migliore gioventù cittadina e così, tra un bicchiere di rosolio e l’altro e tra una melodia ed un’altra, al pianoforte, suonata da qualche fanciulla che partecipava a quelle serate, cominciarono, quei giovani, a parlare di politica e a svelare la loro insofferenza verso il regime borbonico.

Alcuni di loro si fecero poi notare per qualche articolo sulla rivista letteraria "La Palingenesi", sottoposta al ferreo controllo della censura borbonica.

«Sempre io soltanto dovrò ascoltare? che forse non potrò mai rispondere tante volte vessato?», diceva il motto del giornale, riprendendo un’espressione di Giovenale.

C’era dunque qualcuno a Girgenti che intendeva reagire dinanzi alle continue vessazioni?

Sebbene a tema nella rivista vi fossero questioni di letteratura, arte e scienza in realtà l’intento, soprattutto dei giovani intellettuali agrigentini, perlopiù avvocati, che componevano la redazione, non era neppure tanto celato.

D'altra parte “La Palingenesi” era diretta da Gabriele Dara. Leggendo tra le righe di taluni articoli, si comprende, anche oggi, che l’intento di quei fogli era quello di avviare un dibattito anche su temi politici spinosi, per un’autentica rigenerazione della mentalità locale.

Le autorità borboniche lo compresero presto e il giornale venne chiuso dopo poche uscite. Scrive lo storico Angelo Giudice: «In Girgenti era un fremito, una smania, un'ansietà indefinibile: i patrioti erano sulle bragia e mordevano il freno. Sorse un comitato, si tennero combriccole».

Uno di questi comitati teneva le sue riunioni nella Casina empedoclea, il circolo dei borghesi agrigentini, giovani e meno giovani, diversi dei quali con idee liberali e massoniche. Tutti questi patrioti erano in stretto contatto con Francesco Crispi.

Si tratta di Aristide Scribani, Raimondo Lupo, Gaetano Nocito, Pietro Vullo, Francesco De Luca, Innocenzo e Antonio Gramitto, Alfonso e Carmelo Cannella, Antonio De Crescenzo, Achille Genuardi, Giuseppe e Luigi Lauricella, Salvatore Pinna, Alfonso Puntarello, Francesco Smecca. Adolfo Celi, Domenico Bartoli, Pasquale Vaccaro e i francesi Roubeaud e Quirell, oltre quelli che abbiamo già citato.

Altri ancora furono meno noti o non vengono purtroppo ricordati dalla cronache del tempo. Alcuni di loro ebbero prestigiosi incarichi dopo l’annessione della Sicilia all’Italia e, soprattutto, molti seguirono ancora Garibaldi nel 1862 e parteciparono alla terza guerra d’Indipendenza.

Luigi Pirandello, nel romanzo "I vecchi e i giovani", ha raccontato le vicende di quei giovani e soprattutto le loro speranze, sottolineando però in gran parte vennero tradite da governi nazionali, che non mantennero ciò che avevano promesso e anche ad Agrigento la delusione postrisorgimentale fu cocente.
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