Il femminicidio (illustre) della baronessa di Carini: tra poesia, archivi e falsi storici
L'indagine del medico Salamone Marino durò a lungo: solo nel 1914 vide la luce un terzo e definitivo libro in cui affermava di aver scoperto finalmente la verità
"Signor padre che vinistivu a fari? Signura figghia vi vinni ad ammazzari” Sono questi i versi di una leggenda storica popolare che i cantastorie hanno narrato per secoli nelle piazze siciliane; versi che "fan tremare le vene e i polsi…". Solo tra la fine dell’Ottocento e la metà del Novecento alcuni studiosi sono riusciti a dimostrare che la storia della sfortunata Baronessa, uccisa insieme al suo amante Ludovico Vernagallo nel castello di Carini, non era solo poesia e leggenda. Il popolo aveva trasformato in poesia un crudele fatto di cronaca avvenuto la notte del 4 dicembre 1563.
A intuire la verità, fu per primo un medico di Borgetto (PA), studioso di tradizioni popolari e amico di Giuseppe Pitrè, il suo nome era Salvatore Salomone Marino: dedicò più di quarant’anni a ricerche ed indagini, per cercare di “dipanare il mistero e chiarire i veri termini del dramma”. Il Salomone Marino pubblicò nel 1870 la prima edizione del La baronessa di Carini. Leggenda storica popolare del secolo XVI in poesia siciliana, frutto di tre anni di “faticose, pazienti e accurate ricerche” condotte in 50 comuni della Sicilia, per riuscire a “riunire le sparse membra della leggenda di Caterina La Grua".
Cantava il popolo pietoso che la giovane e inesperta Caterina, figlia del barone di Carini Pietro III La Grua-Talamanca, innamoratasi di un bel cavaliere di casa Vernagallo, era stata uccisa dal padre a causa del suo colpevole amore. Il libro ebbe immediato successo di critica, ma alcuni studiosi si posero tuttavia diversi interrogativi, tra questi Giuseppe Pitrè, che avanzò un’ipotesi: secondo lui la signora di Carini era la moglie, non la figlia del barone - come si era sempre pensato -. Il Salamone Marino cominciò allora un’indagine che si sarebbe protratta a lungo: solo nel 1914 vedeva la luce un terzo e definitivo libro in cui il medico affermava di aver scoperto finalmente la verità: l’assassino non era il barone Pietro La Grua; si trattava invece, di uno dei più importanti personaggi della Sicilia cinquecentesca, il potente Don Cesare Lanza, conte di Mussomeli e della Trabia; e le vittime erano due: donna Laura Lanza (figlia di Don Cesare, moglie - e non figlia - del pavido barone Vincenzo La Grua) e l’amante Ludovico Vernagallo”. Caterina La Grua non era mai esistita.
Lo stesso Salamone Marino spiegava poi che attraverso ricerche negli archivi della famiglia La Grua e studi più accurati dei versi popolari raccolti, era riuscito a ricostruire meglio il dramma, intuendo che la storia vera doveva essere stata subito falsificata, se non addirittura messa a tacere dalle potenti famiglie coinvolte.
Si era trattata di una sorta di congiura del silenzio, per insabbiare il tragico fatto di sangue. Se diaristi come il Palmerino e il Paruta, intimoriti, si limitavano laconicamente a parlare del “caso della Signora di Carini”, Vincenzo Auria, memorialista palermitano, caduto nell’inganno della falsificazione portata avanti dalle famiglie, scriveva: “4 Settembre 1563. Fu ammazzata la signora Da Caterina La Grua signora di Carini”.
Anche il Marchese di Villabianca che già prima del Salomone Marino aveva cercato di identificare i protagonisti della vicenda affermava: “Il caso miserando della figlia di Carini lo fè Pietro La Grua Talamanca barone di Carini, a’4 Dicembre 1563, col dar morte colle sue mani e nel suo stesso castello di Carini alla sua figlia creduta rea di fallo venereo con uno di Casa Vernagallo. E questo si chiama il Caso della figlia di Carini che ancora rumoreggia nella Sicilia”. Eppure contro ogni previsione, lo scabroso segreto, seppur manipolato, si era propagato per tutta l’isola e la sua memoria aveva attraversato i secoli: “Evidentemente ben forte dovette esserne la impressione nel paese se l’eco dolorosa e famosa se n’era trasmessa vivisima per oltre a trecent’anni nella tradizione popolare”.
Già nel 1873 il Salomone Marino aveva trovato nel registro della chiesa madre di Carini l’atto di morte dei due amanti, con la seguente annotazione: “A dì 4 di Indictionis 1563 Fu morta la spettabile Signora Donna Laura Lagrua. Sepelliosi ala Matri Ecclesia (…) eodem fu morto Ludovico Vernagalli e pietosamente si segnava accanto ai due nomi quella croce che la pia consuetudine del popolo tributa agli spenti di morte violenta”. Il fatto di cronaca era dunque ben più tragico di come i cantastorie l’avevano sempre raccontato: la vittima non era una fanciulla, ma una donna matura, sposata, che aveva un amante. Il padre era stato ferito nell’onore, il marito era stato tradito.
Ciò gettava un’ombra di discredito su entrambe le famiglie, i Lanza e i La Grua, e metteva in pericolo persino la legittimità dei figli, dal momento che la relazione more uxorio durava da quasi vent’anni. Il delitto fu dunque avvolto subito da un alone di mistero, per preservare l'onore: i documenti furono strappati o manomessi con alterazioni e rifacimenti (la data di morte di Laura venne spostata dal Dicembre 1563 al Marzo del 1564), gli alberi genealogici modificati ad hoc (spunta un ramo con il nome di Caterina). Una sorta di regia della falsificazione che si poneva l’obiettivo di rendere confusa la storia vera e di fare circolare una versione edulcorata. Tutto ciò aveva reso difficile, se non impossibile, una ricostruzione storica fedele della vicenda. Lo stesso Salomone Marino in circa cinquant’anni di ricerche non pervenne mai ad un documento definitivo che a chiare lettere dicesse che don Cesare Lanza aveva ammazzato la figlia Laura e il Vernagallo; solo mezzo secolo dopo venne ritrovato all’archivio di stato di Palermo, dalla direttrice Adelaide Baviera Albanese, un documento che avrebbe dato al Salomone Marino grandissima emozione: un memoriale scritto di pugno da uno dei protagonisti della tragica vicenda, Cesare Lanza in persona.
Il documento, pubblicato nel 1964 in Nuovi Quaderni del Meridione, attestava la colpevolezza di don Cesare Lanza, che dopo il delitto era fuggito in Spagna e si era recato direttamente al sovrano per presentare la sua difesa. Il Lanza affermava che il genero, il barone La Grua, avendo sorpreso la moglie Laura e l’amante Vernagallo, nella camera da letto della baronessa assai alterato, aveva preferito ritirarsi discretamente. Proprio in quel momento era giunto in visita il suocero e informato dell’accaduto, accecato dall’ira, aveva provveduto a far sì che i due amanti fossero ammazzati.
Il Lanza probabilmente mentiva su più punti: innanzitutto quando affermava che il delitto era stato commesso in un momento d’ira, per la scoperta della tresca; mentre l’utilizzo per il delitto dell’archibugio, arma ad avancarica, supporrebbe premeditazione. Sembrerebbe premeditata anche la visita di Don Cesare Lanza al castello: egli si era mosso con tutto il suo seguito e giunto nottetempo a Carini aveva ordinato ai suoi uomini di circondare il maniero, per impedire la fuga degli amanti. Secondo Baviera Albanese “sembra legittimo supporre che tutta l’azione fu, tra suocero e genero, concordato nei più piccoli particolari secondo un ben preciso disegno”. Baviera Albanese sottolinea anche che la strategia difensiva del Lanza di fronte al re venne costruita abilmente sotto il profilo giuridico, puntando sul delitto d’onore: spettava al marito uccidere la moglie in flagranza di adulterio; era stato invece il padre a porre in essere l’azione vendicativa, ma… alla presenza del marito!
Si potrebbe ipotizzare che probabilmente Vincenzo, pur essendo nel pieno diritto di far valere le sue ragioni di marito ferito nell’onore, non trovando il coraggio necessario, abbia affidato al suocero in qualità di indiscusso pater familias la difesa del buon nome del casato. Secondo Sciascia, ne vien fuori il ritratto di un marito vile e di un uomo debole, inetto e succube del suocero. Non fa una figura migliore Ludovico Vernagallo, l’amante codardo che, nella poesia popolare, invece di difendere la sua donna offre le spalle al pugnalatore, nel tentativo di fuggire. Una volta assolto Don Cesare tornò alla sua vita di sempre: il nuovo Vicerè lo nominò "capitano d’armi e guerra" per la difesa della città di Sciacca dagli attacchi pirateschi e negli anni successivi continuò a svolgere incarichi ufficiali, senza mostrare alcun rimorso o segno di pentimento.
Vincenzo La Grua, dopo un breve periodo trascorso in carcere al Castellammare di Palermo venne prosciolto da ogni accusa e si risposò con Ninfa Ruiz. Tornò nel castello di Carini, dove una lapide marmorea con l’immagine dell’araba fenice venne posta sulla trabeazione della porta che affacciava sulla corte. Sulla lapide era inciso “ET NOVA SINT OMNIA” (Che siano nuove tutte le cose). Al di là di una riflessione sui criteri della giustizia dell’epoca, rimane un interrogativo che già Gentile aveva posto in un saggio del 1963: ha dell’inspiegabile come mai don Cesare Lanza e il barone di Carini, avevano chiuso a lungo gli occhi su una relazione clandestina che si protraeva da più di vent’anni e poi, un giorno all’improvviso, avevano deciso di uccidere i due amanti.
La risposta potrebbe essere il movente del delitto: “pare che nella famiglia Lanza, che discende appunto da don Cesare, si raccontasse che costui doveva del denaro al Vernagallo e che, come altre volte accade o è accaduto in Sicilia, l’omicidio fosse il modo prescelto per estinguere il debito. La baronessa vi sarebbe rimasta coinvolta perché l’occultamento della vera ragione fosse completo”. (A. Varvaro, Adulteri, delitti e filologia) “E così si chiude la storia del caso della baronessa di Carini (…) Storia truce, orrenda, mostruosa, incredibile, ma pur troppo vera, come ce la rivelano i documenti che hanno squarciato la fitta diabolica rete di inganni …che la volevano nascondere”, scriveva il Salomone Marino.
Nella Sicilia del Cinquecento non erano inusuali i casi di violenza familiare, soprattutto delitti perpetrati dai mariti (come il celebre caso di Aldonza Santapau) eppure l’efferato omicidio della baronessa di Carini destò clamore e turbò particolarmente le coscienze, tanto che si trasformò in leggenda, attraversando i secoli. A distanza di Cinquecento anni tuttavia ancora si scrive dell’amaro caso della Signora di Carini: il caso di una donna vittima di violenza familiare, di un padre assassino, di un marito vile, di un amante insignificante e di un movente ancora misterioso che rimane alla base di una storia che - nonostante le ricostruzioni storiche e le tante ipotesi formulate - non finisce mai per convincere del tutto.
A intuire la verità, fu per primo un medico di Borgetto (PA), studioso di tradizioni popolari e amico di Giuseppe Pitrè, il suo nome era Salvatore Salomone Marino: dedicò più di quarant’anni a ricerche ed indagini, per cercare di “dipanare il mistero e chiarire i veri termini del dramma”. Il Salomone Marino pubblicò nel 1870 la prima edizione del La baronessa di Carini. Leggenda storica popolare del secolo XVI in poesia siciliana, frutto di tre anni di “faticose, pazienti e accurate ricerche” condotte in 50 comuni della Sicilia, per riuscire a “riunire le sparse membra della leggenda di Caterina La Grua".
Cantava il popolo pietoso che la giovane e inesperta Caterina, figlia del barone di Carini Pietro III La Grua-Talamanca, innamoratasi di un bel cavaliere di casa Vernagallo, era stata uccisa dal padre a causa del suo colpevole amore. Il libro ebbe immediato successo di critica, ma alcuni studiosi si posero tuttavia diversi interrogativi, tra questi Giuseppe Pitrè, che avanzò un’ipotesi: secondo lui la signora di Carini era la moglie, non la figlia del barone - come si era sempre pensato -. Il Salamone Marino cominciò allora un’indagine che si sarebbe protratta a lungo: solo nel 1914 vedeva la luce un terzo e definitivo libro in cui il medico affermava di aver scoperto finalmente la verità: l’assassino non era il barone Pietro La Grua; si trattava invece, di uno dei più importanti personaggi della Sicilia cinquecentesca, il potente Don Cesare Lanza, conte di Mussomeli e della Trabia; e le vittime erano due: donna Laura Lanza (figlia di Don Cesare, moglie - e non figlia - del pavido barone Vincenzo La Grua) e l’amante Ludovico Vernagallo”. Caterina La Grua non era mai esistita.
Lo stesso Salamone Marino spiegava poi che attraverso ricerche negli archivi della famiglia La Grua e studi più accurati dei versi popolari raccolti, era riuscito a ricostruire meglio il dramma, intuendo che la storia vera doveva essere stata subito falsificata, se non addirittura messa a tacere dalle potenti famiglie coinvolte.
Si era trattata di una sorta di congiura del silenzio, per insabbiare il tragico fatto di sangue. Se diaristi come il Palmerino e il Paruta, intimoriti, si limitavano laconicamente a parlare del “caso della Signora di Carini”, Vincenzo Auria, memorialista palermitano, caduto nell’inganno della falsificazione portata avanti dalle famiglie, scriveva: “4 Settembre 1563. Fu ammazzata la signora Da Caterina La Grua signora di Carini”.
Anche il Marchese di Villabianca che già prima del Salomone Marino aveva cercato di identificare i protagonisti della vicenda affermava: “Il caso miserando della figlia di Carini lo fè Pietro La Grua Talamanca barone di Carini, a’4 Dicembre 1563, col dar morte colle sue mani e nel suo stesso castello di Carini alla sua figlia creduta rea di fallo venereo con uno di Casa Vernagallo. E questo si chiama il Caso della figlia di Carini che ancora rumoreggia nella Sicilia”. Eppure contro ogni previsione, lo scabroso segreto, seppur manipolato, si era propagato per tutta l’isola e la sua memoria aveva attraversato i secoli: “Evidentemente ben forte dovette esserne la impressione nel paese se l’eco dolorosa e famosa se n’era trasmessa vivisima per oltre a trecent’anni nella tradizione popolare”.
Già nel 1873 il Salomone Marino aveva trovato nel registro della chiesa madre di Carini l’atto di morte dei due amanti, con la seguente annotazione: “A dì 4 di Indictionis 1563 Fu morta la spettabile Signora Donna Laura Lagrua. Sepelliosi ala Matri Ecclesia (…) eodem fu morto Ludovico Vernagalli e pietosamente si segnava accanto ai due nomi quella croce che la pia consuetudine del popolo tributa agli spenti di morte violenta”. Il fatto di cronaca era dunque ben più tragico di come i cantastorie l’avevano sempre raccontato: la vittima non era una fanciulla, ma una donna matura, sposata, che aveva un amante. Il padre era stato ferito nell’onore, il marito era stato tradito.
Ciò gettava un’ombra di discredito su entrambe le famiglie, i Lanza e i La Grua, e metteva in pericolo persino la legittimità dei figli, dal momento che la relazione more uxorio durava da quasi vent’anni. Il delitto fu dunque avvolto subito da un alone di mistero, per preservare l'onore: i documenti furono strappati o manomessi con alterazioni e rifacimenti (la data di morte di Laura venne spostata dal Dicembre 1563 al Marzo del 1564), gli alberi genealogici modificati ad hoc (spunta un ramo con il nome di Caterina). Una sorta di regia della falsificazione che si poneva l’obiettivo di rendere confusa la storia vera e di fare circolare una versione edulcorata. Tutto ciò aveva reso difficile, se non impossibile, una ricostruzione storica fedele della vicenda. Lo stesso Salomone Marino in circa cinquant’anni di ricerche non pervenne mai ad un documento definitivo che a chiare lettere dicesse che don Cesare Lanza aveva ammazzato la figlia Laura e il Vernagallo; solo mezzo secolo dopo venne ritrovato all’archivio di stato di Palermo, dalla direttrice Adelaide Baviera Albanese, un documento che avrebbe dato al Salomone Marino grandissima emozione: un memoriale scritto di pugno da uno dei protagonisti della tragica vicenda, Cesare Lanza in persona.
Il documento, pubblicato nel 1964 in Nuovi Quaderni del Meridione, attestava la colpevolezza di don Cesare Lanza, che dopo il delitto era fuggito in Spagna e si era recato direttamente al sovrano per presentare la sua difesa. Il Lanza affermava che il genero, il barone La Grua, avendo sorpreso la moglie Laura e l’amante Vernagallo, nella camera da letto della baronessa assai alterato, aveva preferito ritirarsi discretamente. Proprio in quel momento era giunto in visita il suocero e informato dell’accaduto, accecato dall’ira, aveva provveduto a far sì che i due amanti fossero ammazzati.
Il Lanza probabilmente mentiva su più punti: innanzitutto quando affermava che il delitto era stato commesso in un momento d’ira, per la scoperta della tresca; mentre l’utilizzo per il delitto dell’archibugio, arma ad avancarica, supporrebbe premeditazione. Sembrerebbe premeditata anche la visita di Don Cesare Lanza al castello: egli si era mosso con tutto il suo seguito e giunto nottetempo a Carini aveva ordinato ai suoi uomini di circondare il maniero, per impedire la fuga degli amanti. Secondo Baviera Albanese “sembra legittimo supporre che tutta l’azione fu, tra suocero e genero, concordato nei più piccoli particolari secondo un ben preciso disegno”. Baviera Albanese sottolinea anche che la strategia difensiva del Lanza di fronte al re venne costruita abilmente sotto il profilo giuridico, puntando sul delitto d’onore: spettava al marito uccidere la moglie in flagranza di adulterio; era stato invece il padre a porre in essere l’azione vendicativa, ma… alla presenza del marito!
Si potrebbe ipotizzare che probabilmente Vincenzo, pur essendo nel pieno diritto di far valere le sue ragioni di marito ferito nell’onore, non trovando il coraggio necessario, abbia affidato al suocero in qualità di indiscusso pater familias la difesa del buon nome del casato. Secondo Sciascia, ne vien fuori il ritratto di un marito vile e di un uomo debole, inetto e succube del suocero. Non fa una figura migliore Ludovico Vernagallo, l’amante codardo che, nella poesia popolare, invece di difendere la sua donna offre le spalle al pugnalatore, nel tentativo di fuggire. Una volta assolto Don Cesare tornò alla sua vita di sempre: il nuovo Vicerè lo nominò "capitano d’armi e guerra" per la difesa della città di Sciacca dagli attacchi pirateschi e negli anni successivi continuò a svolgere incarichi ufficiali, senza mostrare alcun rimorso o segno di pentimento.
Vincenzo La Grua, dopo un breve periodo trascorso in carcere al Castellammare di Palermo venne prosciolto da ogni accusa e si risposò con Ninfa Ruiz. Tornò nel castello di Carini, dove una lapide marmorea con l’immagine dell’araba fenice venne posta sulla trabeazione della porta che affacciava sulla corte. Sulla lapide era inciso “ET NOVA SINT OMNIA” (Che siano nuove tutte le cose). Al di là di una riflessione sui criteri della giustizia dell’epoca, rimane un interrogativo che già Gentile aveva posto in un saggio del 1963: ha dell’inspiegabile come mai don Cesare Lanza e il barone di Carini, avevano chiuso a lungo gli occhi su una relazione clandestina che si protraeva da più di vent’anni e poi, un giorno all’improvviso, avevano deciso di uccidere i due amanti.
La risposta potrebbe essere il movente del delitto: “pare che nella famiglia Lanza, che discende appunto da don Cesare, si raccontasse che costui doveva del denaro al Vernagallo e che, come altre volte accade o è accaduto in Sicilia, l’omicidio fosse il modo prescelto per estinguere il debito. La baronessa vi sarebbe rimasta coinvolta perché l’occultamento della vera ragione fosse completo”. (A. Varvaro, Adulteri, delitti e filologia) “E così si chiude la storia del caso della baronessa di Carini (…) Storia truce, orrenda, mostruosa, incredibile, ma pur troppo vera, come ce la rivelano i documenti che hanno squarciato la fitta diabolica rete di inganni …che la volevano nascondere”, scriveva il Salomone Marino.
Nella Sicilia del Cinquecento non erano inusuali i casi di violenza familiare, soprattutto delitti perpetrati dai mariti (come il celebre caso di Aldonza Santapau) eppure l’efferato omicidio della baronessa di Carini destò clamore e turbò particolarmente le coscienze, tanto che si trasformò in leggenda, attraversando i secoli. A distanza di Cinquecento anni tuttavia ancora si scrive dell’amaro caso della Signora di Carini: il caso di una donna vittima di violenza familiare, di un padre assassino, di un marito vile, di un amante insignificante e di un movente ancora misterioso che rimane alla base di una storia che - nonostante le ricostruzioni storiche e le tante ipotesi formulate - non finisce mai per convincere del tutto.
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