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Il (primo) rifugio di Santa Rosalia: nascosto tra le rocce, è stato teatro di furti e omicidi

A poca distanza dalla grotta in cui visse la Santuzza, nacque un convento di eremiti. Qui nel secolo scorso si consumarono atti deplorevoli, come furti ed omicidi

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 14 luglio 2023

Eremo di Santa Rosalia

Nascosto nel cuore di un fitto bosco di querce, lecci e roverelle, nel parco dei monti Sicani, tra Santo Stefano di Quisquina e Cammarata, sorge "l’eremo di Santa Rosalia".

Si tratta di un complesso religioso realizzato a poca distanza dalla grotta “santa”, dove una giovanissima fanciulla normanna in cerca di Dio, Rosalia (figlia di Sinibaldo signore di Quisquina e di Rose), trovò dimora secondo la tradizione per ben dodici anni (probabilmente dal 1150 al 1162).

Il bosco che circonda l’eremo è così fitto, che in alcuni punti la luce del sole non riesce quasi a penetrare attraverso il fogliame, per questa ragione probabilmente i saraceni lo chiamarono "koschin", oscuro, da cui deriva il toponimo Quisquina.

La storia dell'eremo ha inizio dunque quando, Rosalia, nobile palermitana imparentata con la famiglia reale, fugge dalla mondanità della corte di Palermo, per fare vita eremitica, in contemplazione e preghiera, e trova rifugio nel feudo paterno, in un angusto anfratto quasi inaccessibile, nascosto tra rocce ricoperte di edera e muschio: per accedervi bisogna chinarsi e strisciare sulla pancia.
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Alcuni anni dopo, Rosalia torna a Palermo, scegliendo di vivere in una grotta del Monte Pellegrino e qui spirerà, in odore di santità, nel 1166.

Tutti si dimenticano della pia fanciulla, per quasi cinquecento anni, finchè nel 1624 scoppia una terribile epidemia di peste nera e a seguito delle visioni di Girolama La Gattuta e del saponaro Vincenzo Bonello, nella grotta sul Monte Pellegrino, su precise indicazioni della fanciulla, vengono ritrovate le ossa di Rosalia.

Le reliquie vengono portate in processione e "al loro passaggio il male si alleggeriva, diventava meno intenso, perdeva la sua gravità. Palermo in breve fu libera", scriveva Giuseppe Pitrè.

Rosalia viene proclamata a furor di popolo Santa e Patrona indiscussa della città di Palermo, esautorando di fatto le antiche protettrici Santa Cristina, Sant’Agata, Sant’Oliva e Santa Ninfa.

Poco tempo dopo la scoperta dei resti nella grotta del monte Pellegrino, due muratori palermitani il 25 agosto trovano nel secolare bosco della Quisquina una minuscola grotta, dove è incisa sulla roccia un’epigrafe che recita: "Ego Rosalia Sinibaldi Quisquinae et Rosarum domini filia amore d.ni Jesu Christi ini hoc antro habitari decrevi" ossia: Io Rosalia figlia di Sinibaldo Signore di Quisquina e delle Rose per amore del signore Gesù ha scelto di abitare in questa grotta.

Il luogo diventa meta di culto e pellegrinaggio; nelle immediate vicinanze della santa grotta viene subito costruita una cappella.

Qualche anno dopo, nel 1690, il mercante genovese Francesco Scassi (o Scasso), appresa la storia di Rosalia decide di venire in Sicilia e di investire tutto il suo denaro nella realizzazione di una chiesa e di un convento (con cellette, una cucina e una stalla).

Scassi si ritira a vivere nell’eremo della Quisquina con altri tre uomini: nasce così una congregazione indipendente di frati devoti a Santa Rosalia.

La struttura con il tempo diventa del tutto autosufficiente, dotandosi del frantoio, del granaio, della falegnameria, per riuscire ad affrontare l’isolamento, soprattutto durante i rigidi inverni.

Nel corso del Settecento il suggestivo eremo, tra i silenziosi boschi della Quisquina, diventa uno dei più rinomati di tutta la Sicilia, vi giungono in visita vescovi, cardinali e aristocratici, per trovare ristoro all’ anima e al corpo.

Sono i Ventimiglia, Baroni di Santo Stefano e signori di Collesano, coloro che provvedono ad ampliare la struttura, per renderla capace di ospitare fino ad un centinaio di frati.

In realtà quello della Quisquina è un ritiro laico: gli eremiti indossano il saio ma non sono dei frati veri e propri, costituiti in un ordine riconosciuto o con una regola monastica; e senza regole gli eremiti rimangono fino allo scioglimento della loro congregazione.

La fama dell’eremo, della sua aura mistica, della vita semplice e autentica che vi si conducono, in breve si diffondono anche al di là dello stretto e in tanti si presentano alla Quisquina, per esservi ammessi.

Il noviziato dura un anno e le prove per poter rimanere sono molto severe: bisogna resistere a privazioni di ogni genere e ai rigori invernali rivestiti solo del saio e dei sandali; i più coraggiosi devono trascorrere la notte all’interno della cripta, situata sotto l’altare, insieme alle mummie dei frati defunti.

Molti lasciano perdere solo dopo poco tempo.

Tra i personaggi illustri che tengono alta la fama dell’eremo bisogna ricordare Bartolomeo Pii, generale spagnolo di stanza a Palermo (che dopo aver ucciso un innocente, in preda al rimorso si dimette e decide di vivere alla Quisquina, per espiare la sua colpa, col nome di fra’ Vincenzo) e Carlo Boccolari (nobile modenese che dopo aver letto la biografia della santa chiede di far parte della congregazione, affronta con coraggio un anno di prove e diviene eremita, conducendo una vita vero esempio di perfezione cristiana).

Nel 1807 re Ferdinando IV al termine di un breve soggiorno, colpito dall’atmosfera mistica dell’eremo, dispone affinchè ai frati venga recapitato ogni anno un tonno.

Scrive Andrea Camilleri "Il tonno, gli eremiti se lo gustarono per poco più di una cinquantina d’anni, poi al posto dei Borboni arrivarono quei miscredenti dei piemontesi e la bella consuetudine ebbe termine".

Comincia poi la fase oscura del convento.

Se alcuni frati sono morti in passato in odore di santità, altri approfittano adesso della posizione propizia dell’eremo, così isolato, per farne un covo di brigati e per dedicarsi indisturbati a occupazioni più mondane come l’abigeato, la grassazione, il furto, la rapina.

Un amministratore del principe Belmonte, tale Giuseppe Inglese, ordisce una congiura e convince uno dei frati a rubare dalla cassa dell’eremo e a creare delle prove per addossare la colpa del furto al superiore e a tre dei pochi frati onesti rimasti.

I presunti colpevoli vengono incarcerati, finchè non interviene il Vescovo di Agrigento, ma nel frattempo il povero superiore è deceduto a causa delle torture. Molti anni dopo, nel 1922, una mattina il superiore Fra Bernardo, viene ritrovato ammazzato dai frati: è stato assassinato con oltre 60 coltellate.

Le indagini propendono per una faida interna: presunto autore del delitto è Paolo Mortellaro, conosciuto col nome di frate Antonio, definito dalla questura come "capace di ogni delitto".

Viene mandato al confino per 6 anni. Dopo l’efferato omicidio l’eremo comincia a non apparire più agli occhi dei devoti della Santuzza come un luogo di misticismo e santità e così smettono di arrivare oboli e donazioni.

Poco tempo dopo la congregazione viene sciolta: il prefetto di Agrigento nel 1928, sommerso dalle denunce contro i frati, affida la gestione dell’eremo a un commissario esterno, ma alcuni eremiti si ribellano e rimangono a presidiare l’eremo.

Il 9 Luglio del 1945 Monsignor Peruzzo, Vescovo di Agrigento, uomo di polso che ha messo a capo degli eremiti superstiti della Quisquina due sacerdoti (generando lo scontento dei frati) e che, rapito dalla tranquillità e dalla solitudine del luogo, ha deciso di trascorrervi i mesi estivi, subisce un attentato da parte del sedicente eremita Paolo Mortellaro.

Scontati i 6 anni di confino, l’autore del delitto di fra Bernardo è tornato alla Quisquina, portando scompiglio tra i romiti superstiti: è stato accusato di furto e di avere una tresca con una donna, per questo motivo l’ex frate è stato espulso dal romitaggio per ordine del Vescovo Peruzzo.

Mortellaro dopo aver inutilmente fatto pressione sul Peruzzo per essere riammesso in convento, ha giurato di vendicarsi e con la complicità di due frati, dopo aver atteso al varco il prelato, la sera del 9 Luglio gli spara: il monsignore, che ha 67 anni, viene ferito a morte.

Viene soccorso e poi operato a un polmone dal professore Raimondo Borsellino. Dopo sei giorni di prognosi riservata viene dichiarato fuori pericolo.

La lista delle malefatte del convento della Quisquina si è conclusa da poco: nel 1973 e nel 1982 una serie di furti hanno privato la chiesa di moltissimi oggetti (candelabri, crocifissi, reliquari d’argento e 32 oli su tela).

Si è salvata per fortuna la statua di Santa Rosalia (che si venera sull’altare maggiore della chiesetta) atteggiata nell’atto di incidere sulla roccia le parole che attestano la sua risoluzione di lasciare il mondo per amore di Gesù, realizzata nel 1775 dallo scultore Filippo Pennino (N.d.r. Il bozzetto preparatorio dell’opera si trova a Palermo, nel chiostro del monastero di Santa Caterina).

L’ultimo frate dell’eremo della Quisquina è stato Cacciatore Filippo, nato il 1 Aprile 1888, analfabeta e noto come Fra’ Vicè: ha vissuto nella struttura in solitudine e si è mantenuto grazie alle elemosine degli abitanti dei dintorni, fino al giorno della sua morte avvenuta nel 1985 all’età di 96 anni.

Oggi l'Eremo è affidato alla gestione della Pro Loco di Santo Stefano Quisquina ed è possibile visitare la struttura con una guida locale, anche su prenotazione online.

Il 5 giugno 2015, alla presenza dell'Arcivescovo della Diocesi di Agrigento Francesco Montenegro, è stato inaugurato "L'Itinerarium Rosaliae", un sentiero lungo 180 km che collega i due Santuari di Santa Rosalia, quello della Quisquina e quello di Monte Pellegrino.

Si tratta di un sentiero realizzato dalla forestale che propone un itinerario naturalistico, attraverso numerosi borghi e riserve naturali.
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