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L'ex monastero che divenne una casa chiusa: le donne del vicolo del Cancelliere a Palermo

Nel dopoguerra i ruderi di un luogo di santità divennero un triste lupanare, condannato dai moralisti e assolto dai "clienti". Dov'è e perché si chiama così

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 18 aprile 2023

Una donna con dei marinai nel 1930 (foto d'archivio)

“Il Vicolo del Cancelliere era una istituzione: piccolo, strettissimo, quasi un budello. Estremamente fetido! Ma in quanti ci passarono (magari solo per guardare), in quanti si fermarono nelle camerette con le pareti divisorie in compensato, per pochi attimi di piacere?

Oggi è così: vuoto, le stanze murate, sembra un breve corridoio verso il nulla!.” Così Costantino Garraffa, palermitano, classe 1951, appassionato di fotografia ricorda uno dei luoghi più tristi di una Palermo, che - per fortuna - non esiste più. Tra il Vicolo del Cancelliere e il Vicolo Marotta, in squallide e misere baracche, sporche e puzzolenti, signore mature, sgualcite e appesantite dall’età, e signorine poco attraenti ma discinte, offrivano un tempo ai passanti i loro favori, in cambio di poche lire.

Ma dov’è il Vicolo del Cancelliere e perché si chiama così? È un vicolo che si apre su via Vittorio Emanuele, quasi di fronte a piazza Bologni e che porta in Via del Celso, dove fino al 1943 esisteva un monastero di benedettine.
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Il monastero venne edificato in epoca normanna, nel 1171, dal Gran Cancelliere Matteo D’Ajello, per eseguire la volontà testamentaria della defunta moglie Sica e vi entrarono subito 24 moniali.

Nel 1584 vi si trasferirono anche le monache olivetane del monastero di Santa Lucia del Papireto, a causa dell’insalubrità di quella zona, dove le acque del fiumiciattolo esondavano e ristagnavano, creando una palude.

Nel 1590, sul luogo della primitiva chiesa normanna venne riedificata la nuova chiesa, ma i lavori ebbero termine solo molto tempo dopo, il 12 Aprile 1739, giorno in cui si celebrava la festa della Madonna dell’Udienza.

Le benedettine del Cancelliere avevano un camminamento aereo che collegava il monastero con la loggia belvedere sul Cassaro, da dove potevano assistere dall’alto, celate da fitte grate, alle processioni religiose.

Il monastero possedeva inoltre nella contrada detta di Scannaserpi o di Sanpolo alli colli una villa di campagna, dove le religiose venivano condotte due volte all’anno "per trovare bell’agio nelle fiorite stagioni" (Marchese di Villabianca).

Oggi l’edificio di residenza estiva è parrocchia, col titolo di Maria Ausiliatrice. Sia il monastero che la chiesa del Cancelliere furono rasi al suolo dalle bombe sganciate tra il 29 e il 30 giugno del 1943 e solo alcune delle opere d’arte presenti nel complesso, come la tavola della Madonna dell’Udienza, dono del cancelliere Matteo D’Ajello alle monache e oggetto di grande devozione popolare, vennero messe in salvo prima della devastazione, da Mons. Pottino, all’epoca direttore del Museo Diocesano.

Tra i ruderi del monastero sorsero presto delle casupole, in cui esercitavano il meretricio donne disperate, spinte dalla fame e dalla povertà. I soldati e i marinai americani aspettavano pazientemente il loro turno e si creavano lunghissime file, su tutta la Via Vittorio Emanuele.

Il vicolo del Cancelliere diventò negli anni successivi una “vetrina” di donne che si vendevano per quattro soldi: esseri umani ridotti in schiavitù, schernite dai monelli, sfruttate dai compagni e dai protettori, condannate dai moralisti e assolte di nascosto dai peccatori più incalliti.

“Prima” avveniva solitamente una breve contrattazione e poi, quando si raggiungeva l’accordo, l’uomo di turno entrava in una stanzetta angusta, gelida in inverno e rovente in estate, illuminata a stento da una lampadina che pendeva dal soffitto e separata dalla strada da una tenda perennemente aperta. C’erano un letto (o a volte solo un materasso), un bidet di ceramica a tre gambe, e poco altro.

Da luogo di silenzio e preghiera, dove le monachelle vivevano lodando il Signore, il Vicolo del Cancelliere nel dopoguerra si trasformò per oltre due decenni in un covo di malaffare. In tanti lucravano sulla prostituzione: dai lenoni ai vetturini, che procacciavano i clienti.

Danilo Dolci, che ebbe il coraggio di denunciare nel suo libro “Inchiesta a Palermo” del 1956 la miseria nera in cui vivevano larghe fasce della popolazione cittadina, descrisse in alcune pagine del volume anche il degrado della prostituzione dei vicoli di Palermo, rivelando un’umanità abituata ad arrangiarsi e a tirare avanti col mestiere più vecchio del mondo per tentare di sopravvivere, nell’abbandono e nell’ignoranza, senza alcuna possibilità di riscatto: “Pure la povertà porta che le donne si prostituiscono!”.

Così scriveva Dolci, raccogliendo la testimonianza di un vetturino settantenne: “ (…)Erano assai durante la guerra, americani e neri…I mariti ci portavano le mogli […]Uno traseva e un altro nesceva: facevano la coda (…). Sempre continua oggi la cosa. Ora la scena si ripete quando arrivano le navi, traffichìano sempre. I cocchieri sanno bene queste cose. Gli americani domandano al cocchiere “Segnorina?” E questi ce li portano e fanno due cose, cocchieri e ruffiani (…)

Le ragazze poi sono differenti. C’è quella più bella…a seconda la categoria. La categoria più bassa è 1000 lire o cinquecento, vestono così casaliccie. L’altra categoria da 2000 lire sono più fini, vestono migliori; anche qualche signora di nascosto al marito o certe volte con il marito che fa finta di non sapere. (…)

Ci sono delle famiglie che mi vengono a dire, il bisogno le costringe: - Mi trovi qualche persona straniera … di passaggio … qualche villano … […] Viene il fratello o la mamma, uno dei genitori. Anche il marito. Poi il marito annaca [culla] il bambino e la moglie …[…] Dall’altra parte vengono gente dai paesi, che sanno dove sto, attempati che non vogliono farsi vedere nelle case di tolleranza o giovani di buona famiglia, studenti, figli di papà, e mi dicono.

– Zu …, ci è una bella signorina? Quanto piglia?”.

Il 27 giugno del 1957, Danilo Dolci venne condannato a due mesi di reclusione, per questo e altri brani di “Inchiesta a Palermo”.

L'accusa fu di “pubblicazione oscena”: le immagini a tinte forti del libro, che sono un vero e proprio pugno allo stomaco, andavano risparmiate al perbenismo della classe dirigente dell’epoca.

“In questi ultimi tempi (…) è stata organizzata una grave congiura per disonorare la Sicilia”, scriverà il cardinale Ernesto Ruffini, nella lettera pastorale, intitolata “II vero volto della Sicilia” (1964) “ e tre sono i fattori che maggiormente vi hanno contribuito: la mafia, il Gattopardo, Danilo Dolci.

”In realtà, la lettura di “Inchiesta a Palermo” rivelava quanto osceno fosse il tentativo di celare la condizione di fame, di estrema povertà e di degrado in cui vivevano le donne del Vicolo del Cancelliere, del Vicolo Marotta o gli abitanti di Cortile Cascino, del Cortile Lo Cicero, del Capo o della Kalsa (senza dimenticare anche una larga parte della popolazione della provincia palermitana): una miseria aggravata dal totale abbandono della politica e dal silenzio delle istituzioni.
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