STORIA E TRADIZIONI
La curiosa mania di Giovanni Verga in 448 scatti: storia di un (fortunato) ritrovamento
Verga così schivo nel restare dietro le quinte del racconto ci ha lasciato un "diario visivo" dove riconoscere i personaggi dei racconti: dai Malavoglia a Rosso Malpelo

Uno dei 448 scatti di Giovanni Verga
Verga nacque nel 1840, appena un anno dopo l’annuncio ufficiale al mondo di un’invenzione destinata a cambiare per sempre il modo di vedere e conservare la realtà, la fotografia.
Se si volesse leggere la storia con lo sguardo incantato del romanziere, si potrebbe dire che il destino gli abbia affidato fin dall’inizio un doppio sguardo, uno rivolto alla pagina e l’altro attraverso un obiettivo.
Nella vita di Giovanni Verga, il sommo autore del Verismo italiano, convivevano due anime in apparenza lontane ma intimamente affini: da una parte lo scrittore capace di restituire con lingua asciutta e impietosa la voce del popolo siciliano, trasformando la miseria in epica e il silenzio in grido, dall’altra l’uomo che, nella penombra di uno studio o sotto la luce tremante di un cortile assolato, componeva immagini con la lentezza di un rito e la cura di un artigiano della luce.
Nessuno lo avrebbe detto, nessuno se lo sarebbe aspettato, eppure quel Verga così schivo nel raccontare sé stesso e così risoluto nel restare dietro le quinte della narrazione, ci ha lasciato un diario visivo composto da oltre quattrocento negativi, scatti muti che parlano con chiarezza, testimonianze potenti di uno sguardo narrativo che non aveva bisogno di parole.
In quelle immagini si cela un’urgenza profonda, un bisogno mai sazio di verità che non si è esaurito nel linguaggio scritto ma ha trovato una via inattesa in un altro codice espressivo, apparentemente distante eppure sorprendentemente coerente, quello della fotografia.
Fu una passione autentica, coltivata in silenzio con la stessa ostinazione con cui scolpiva le sue pagine, che il mondo ha potuto conoscere solo grazie a un fortunato ritrovamento avvenuto nel 1966, quando nella casa natale dello scrittore, in via Sant’Anna, 8 a Catania, venne scoperta dall’erede dello scrittore, Giovanni Verga Patriarca, contenente 448 negativi fotografici, di cui 327 su lastra di vetro e 121 su pellicola in celluloide, una scoperta straordinaria che aprì una finestra inaspettata su un Verga fino ad allora ignoto, un Verga fotografo.
A rivelare questo patrimonio nascosto fu il professor Giovanni Garra Agosta, che con pazienza e rigore non solo classificò le immagini ma riuscì a identificare luoghi e volti, riconoscendo negli sguardi scolpiti dalla luce e dal tempo la stessa umanità che animava le pagine dei Malavoglia e di Rosso Malpelo.
Il risultato fu la pubblicazione del volume "Verga fotografo", che restituì al pubblico e agli studiosi un aspetto finora celato della sua personalità, rivelando che lo sguardo dello scrittore non si era mai fermato alla carta, ma aveva cercato anche nell’obiettivo la possibilità di fissare ciò che le parole a volte non riescono a trattenere.
La sua fu una fotografia narrativa e silenziosa, ruvida e intensa, coerente con tutto ciò che era stato sulla pagina e nella vita, distante anni luce dalla fotografia borghese da salotto, fatta di pose affettate e vanità estetiche.
Per lui fotografare significava osservare più a fondo, comprendere meglio, entrare in contatto con la realtà che amava raccontare. E se all’inizio la tecnica non era perfetta, col tempo divenne più sicura, più intensa, più eloquente.
Un primo contatto con la macchina fotografica Verga lo ebbe già da bambino, grazie allo zio paterno Salvatore, appassionato fotografo: la fascinazione per quell’oggetto dovette lasciare un segno profondo.
La sua produzione si estese tra il 1878 e il 1911, attraversando più di trent’anni, e fu profondamente influenzata dal rapporto intellettuale e personale con Luigi Capuana, sodale e ispiratore, non solo amico ma vero maestro nella nuova arte, teorico appassionato della fotografia come strumento conoscitivo, campo fertile d’incontro tra scienza e arte.
Negli anni 1881-1884, Verga chiese all’amico fotografie di paesaggi e costumi contadini, ritratti di uomini, donne, preti e galantuomini da cui trarre ispirazione per le sue novelle.
Per Cavalleria rusticana, nell’ottobre 1883, richiese specificamente immagini che corrispondessero ai personaggi: una donna anziana con lo scialle, una giovane con pettinatura caratteristica, un carrettiere. Indicava perfino i colori dei costumi, a testimonianza della sua attenzione per il dettaglio autentico.
Fu grazie a lui che Verga apprese anche i rudimenti della camera oscura, delle emulsioni, dei diaframmi e dei tempi d’esposizione, scoprendo che un’immagine può dire la verità come un racconto, anzi, può mostrarla nuda, senza mediazioni.
Capuana, sperimentatore visionario, credeva che l’obiettivo potesse catturare persino le emozioni invisibili dell’anima e sognava una "fotografia del pensiero".
Verga, più sobrio e ancorato alla materia, lasciava che fossero la luce, le ombre, i corpi e gli sguardi a raccontare da soli, come se fossero personaggi in una scena teatrale. Intanto scriveva, continuava a scrivere con lo stesso rigore etico, con il medesimo bisogno di raccontare senza giudicare, senza abbellire.
I suoi soggetti erano quasi sempre figure umili, contadini, lavandaie, bambini, donne anziane, spesso ripresi nel piccolo terrazzino della sua casa a Catania, con fondali improvvisati fatti di lenzuola stese e muri scrostati, altre volte li ritraeva nei loro ambienti di lavoro, nei campi, nei cortili, nei vicoli polverosi dei paesi siciliani, nelle strade assolate di Vizzini e Scordia, tra i faraglioni di Aci Trezza.
Numerosi anche i ritratti familiari, in cui trasparivano con forza l’intimità degli affetti e l’orgoglio di appartenere a una comunità, impressi con cura nelle lastre fotografiche.
Uno scatto in particolare resta impresso nella memoria, datato 1897, ritrae una madre con i figli nella campagna di Tebidi, la donna ha il volto scavato e fiero, lo sguardo severo e diretto, i bambini sono scalzi, magri, intensi, fissano l’obiettivo con una miscela di sfida e paura. In quell’immagine c’è tutta la poetica di Verga, la dignità della miseria, l’orgoglio del dolore, la bellezza aspra della marginalità.
Anche nei suoi viaggi al Nord non smetteva di scattare, i laghi lombardi, la Svizzera, Bormio diventano altri teatri della sua narrazione visiva, che però non tradisce mai la sua radice umana e realista.
È curioso notare come nei suoi ritratti, accanto ai parenti e agli amici, compaiano spesso camerieri, ortolani, domestici, quasi che ogni volto incontrato fosse un possibile protagonista di una novella.
Molte fotografie recano note autografe con data, luogo, nome del soggetto, una precisione che richiama la sua cura da narratore per il dettaglio autentico, per la verosimiglianza, per la fedeltà al vissuto.
Quando nel 1897 Cesare Pascarella gli regalò una Kodak Pocket Mod. 96, modernissimo apparecchio a pellicola, Verga scrisse con orgoglio che faceva tutto da sé, dallo scatto alla stampa in camera oscura, conferma ulteriore che la fotografia non fu mai per lui un passatempo, ma un laboratorio espressivo, un’estensione della sua scrittura, un altro modo di raccontare.
Le sue immagini non sono mai vuote, ogni inquadratura è scelta, ogni posa è una dichiarazione, ogni ombra un racconto. Il realismo di Verga non era solo uno stile ma un’etica, e questa etica si traduceva con naturalezza anche nella sua fotografia.
Le immagini oggi conservate presso l’Istituto per la Storia dello Spettacolo Siciliano sono il lascito silenzioso di questa sua doppia vocazione, specchi di uno sguardo che sapeva penetrare oltre la superficie, alla ricerca dell’essenza più che dell’apparenza.
Quando nel 1970 queste lastre vennero esposte per la prima volta in modo sistematico, il pubblico scoprì un altro Verga, non più soltanto il cronista degli umili ma anche l’osservatore invisibile, capace di trasformare il dolore in bellezza, la fatica in arte, la vita in immagine.
Oggi la produzione fotografica verghiana viene generalmente divisa in tre gruppi principali: quello dedicato alla sfera privata con scatti di famiglia, amici e autoritratti, quello dedicato alla Sicilia con i suoi paesaggi e le sue genti, e quello legato ai luoghi del Nord frequentati nel periodo milanese.
E se molte immagini sono andate perdute, resta quel nucleo di 448 negativi a dirci ancora molto della sua sensibilità e della sua poetica, resta la testimonianza di una voce che ha saputo parlare anche quando ha scelto il silenzio, resta la memoria visiva di un autore che ha amato la realtà fino al punto di volerla fissare non solo con l’inchiostro ma anche con la luce.
E resta, forse più di tutto, l’idea che in quell’intreccio segreto tra parola e immagine, tra visione e narrazione, tra cronaca e poesia, si annidi la vera grandezza di Giovanni Verga, nella sua capacità di raccontare l’uomo con tutti gli strumenti a disposizione, nella verità più nuda, più crudele, più umana.
Se si volesse leggere la storia con lo sguardo incantato del romanziere, si potrebbe dire che il destino gli abbia affidato fin dall’inizio un doppio sguardo, uno rivolto alla pagina e l’altro attraverso un obiettivo.
Nella vita di Giovanni Verga, il sommo autore del Verismo italiano, convivevano due anime in apparenza lontane ma intimamente affini: da una parte lo scrittore capace di restituire con lingua asciutta e impietosa la voce del popolo siciliano, trasformando la miseria in epica e il silenzio in grido, dall’altra l’uomo che, nella penombra di uno studio o sotto la luce tremante di un cortile assolato, componeva immagini con la lentezza di un rito e la cura di un artigiano della luce.
Nessuno lo avrebbe detto, nessuno se lo sarebbe aspettato, eppure quel Verga così schivo nel raccontare sé stesso e così risoluto nel restare dietro le quinte della narrazione, ci ha lasciato un diario visivo composto da oltre quattrocento negativi, scatti muti che parlano con chiarezza, testimonianze potenti di uno sguardo narrativo che non aveva bisogno di parole.
In quelle immagini si cela un’urgenza profonda, un bisogno mai sazio di verità che non si è esaurito nel linguaggio scritto ma ha trovato una via inattesa in un altro codice espressivo, apparentemente distante eppure sorprendentemente coerente, quello della fotografia.
Fu una passione autentica, coltivata in silenzio con la stessa ostinazione con cui scolpiva le sue pagine, che il mondo ha potuto conoscere solo grazie a un fortunato ritrovamento avvenuto nel 1966, quando nella casa natale dello scrittore, in via Sant’Anna, 8 a Catania, venne scoperta dall’erede dello scrittore, Giovanni Verga Patriarca, contenente 448 negativi fotografici, di cui 327 su lastra di vetro e 121 su pellicola in celluloide, una scoperta straordinaria che aprì una finestra inaspettata su un Verga fino ad allora ignoto, un Verga fotografo.
A rivelare questo patrimonio nascosto fu il professor Giovanni Garra Agosta, che con pazienza e rigore non solo classificò le immagini ma riuscì a identificare luoghi e volti, riconoscendo negli sguardi scolpiti dalla luce e dal tempo la stessa umanità che animava le pagine dei Malavoglia e di Rosso Malpelo.
Il risultato fu la pubblicazione del volume "Verga fotografo", che restituì al pubblico e agli studiosi un aspetto finora celato della sua personalità, rivelando che lo sguardo dello scrittore non si era mai fermato alla carta, ma aveva cercato anche nell’obiettivo la possibilità di fissare ciò che le parole a volte non riescono a trattenere.
La sua fu una fotografia narrativa e silenziosa, ruvida e intensa, coerente con tutto ciò che era stato sulla pagina e nella vita, distante anni luce dalla fotografia borghese da salotto, fatta di pose affettate e vanità estetiche.
Per lui fotografare significava osservare più a fondo, comprendere meglio, entrare in contatto con la realtà che amava raccontare. E se all’inizio la tecnica non era perfetta, col tempo divenne più sicura, più intensa, più eloquente.
Un primo contatto con la macchina fotografica Verga lo ebbe già da bambino, grazie allo zio paterno Salvatore, appassionato fotografo: la fascinazione per quell’oggetto dovette lasciare un segno profondo.
La sua produzione si estese tra il 1878 e il 1911, attraversando più di trent’anni, e fu profondamente influenzata dal rapporto intellettuale e personale con Luigi Capuana, sodale e ispiratore, non solo amico ma vero maestro nella nuova arte, teorico appassionato della fotografia come strumento conoscitivo, campo fertile d’incontro tra scienza e arte.
Negli anni 1881-1884, Verga chiese all’amico fotografie di paesaggi e costumi contadini, ritratti di uomini, donne, preti e galantuomini da cui trarre ispirazione per le sue novelle.
Per Cavalleria rusticana, nell’ottobre 1883, richiese specificamente immagini che corrispondessero ai personaggi: una donna anziana con lo scialle, una giovane con pettinatura caratteristica, un carrettiere. Indicava perfino i colori dei costumi, a testimonianza della sua attenzione per il dettaglio autentico.
Fu grazie a lui che Verga apprese anche i rudimenti della camera oscura, delle emulsioni, dei diaframmi e dei tempi d’esposizione, scoprendo che un’immagine può dire la verità come un racconto, anzi, può mostrarla nuda, senza mediazioni.
Capuana, sperimentatore visionario, credeva che l’obiettivo potesse catturare persino le emozioni invisibili dell’anima e sognava una "fotografia del pensiero".
Verga, più sobrio e ancorato alla materia, lasciava che fossero la luce, le ombre, i corpi e gli sguardi a raccontare da soli, come se fossero personaggi in una scena teatrale. Intanto scriveva, continuava a scrivere con lo stesso rigore etico, con il medesimo bisogno di raccontare senza giudicare, senza abbellire.
I suoi soggetti erano quasi sempre figure umili, contadini, lavandaie, bambini, donne anziane, spesso ripresi nel piccolo terrazzino della sua casa a Catania, con fondali improvvisati fatti di lenzuola stese e muri scrostati, altre volte li ritraeva nei loro ambienti di lavoro, nei campi, nei cortili, nei vicoli polverosi dei paesi siciliani, nelle strade assolate di Vizzini e Scordia, tra i faraglioni di Aci Trezza.
Numerosi anche i ritratti familiari, in cui trasparivano con forza l’intimità degli affetti e l’orgoglio di appartenere a una comunità, impressi con cura nelle lastre fotografiche.
Uno scatto in particolare resta impresso nella memoria, datato 1897, ritrae una madre con i figli nella campagna di Tebidi, la donna ha il volto scavato e fiero, lo sguardo severo e diretto, i bambini sono scalzi, magri, intensi, fissano l’obiettivo con una miscela di sfida e paura. In quell’immagine c’è tutta la poetica di Verga, la dignità della miseria, l’orgoglio del dolore, la bellezza aspra della marginalità.
Anche nei suoi viaggi al Nord non smetteva di scattare, i laghi lombardi, la Svizzera, Bormio diventano altri teatri della sua narrazione visiva, che però non tradisce mai la sua radice umana e realista.
È curioso notare come nei suoi ritratti, accanto ai parenti e agli amici, compaiano spesso camerieri, ortolani, domestici, quasi che ogni volto incontrato fosse un possibile protagonista di una novella.
Molte fotografie recano note autografe con data, luogo, nome del soggetto, una precisione che richiama la sua cura da narratore per il dettaglio autentico, per la verosimiglianza, per la fedeltà al vissuto.
Quando nel 1897 Cesare Pascarella gli regalò una Kodak Pocket Mod. 96, modernissimo apparecchio a pellicola, Verga scrisse con orgoglio che faceva tutto da sé, dallo scatto alla stampa in camera oscura, conferma ulteriore che la fotografia non fu mai per lui un passatempo, ma un laboratorio espressivo, un’estensione della sua scrittura, un altro modo di raccontare.
Le sue immagini non sono mai vuote, ogni inquadratura è scelta, ogni posa è una dichiarazione, ogni ombra un racconto. Il realismo di Verga non era solo uno stile ma un’etica, e questa etica si traduceva con naturalezza anche nella sua fotografia.
Le immagini oggi conservate presso l’Istituto per la Storia dello Spettacolo Siciliano sono il lascito silenzioso di questa sua doppia vocazione, specchi di uno sguardo che sapeva penetrare oltre la superficie, alla ricerca dell’essenza più che dell’apparenza.
Quando nel 1970 queste lastre vennero esposte per la prima volta in modo sistematico, il pubblico scoprì un altro Verga, non più soltanto il cronista degli umili ma anche l’osservatore invisibile, capace di trasformare il dolore in bellezza, la fatica in arte, la vita in immagine.
Oggi la produzione fotografica verghiana viene generalmente divisa in tre gruppi principali: quello dedicato alla sfera privata con scatti di famiglia, amici e autoritratti, quello dedicato alla Sicilia con i suoi paesaggi e le sue genti, e quello legato ai luoghi del Nord frequentati nel periodo milanese.
E se molte immagini sono andate perdute, resta quel nucleo di 448 negativi a dirci ancora molto della sua sensibilità e della sua poetica, resta la testimonianza di una voce che ha saputo parlare anche quando ha scelto il silenzio, resta la memoria visiva di un autore che ha amato la realtà fino al punto di volerla fissare non solo con l’inchiostro ma anche con la luce.
E resta, forse più di tutto, l’idea che in quell’intreccio segreto tra parola e immagine, tra visione e narrazione, tra cronaca e poesia, si annidi la vera grandezza di Giovanni Verga, nella sua capacità di raccontare l’uomo con tutti gli strumenti a disposizione, nella verità più nuda, più crudele, più umana.
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