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La prima donna "lasciata in Nasso": origini, storie e curiosità di un (brutto) modo di fare

Quando le colpe degli antichi greci ricadono sui siciliani: ecco come il tempo ci ha restituito il famoso detto sulla spiacevole pratica ai danni delle nostre antenate

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 8 febbraio 2022

Arianna abbandonata da Teseo sull’isola di Naxos – quadro di Angelica Kauffman (1774)

Che i siciliani siano (e io ne sono un esempio) un popolo con una concezione del tempo tutta propria lo posso confermare io, lo può lo può confermare la storia, lo può confermare la stessa redazione di Balarm costretta a rincorrermi per le consegne in attesa che mi venga l'illuminazione. E volendo c'è da considerare che non è nemmeno colpa nostra, dato che ce l’avevano già bello e buono gli antichi greci che in Sicilia ci hanno fatto un bel soggiorno.

In fondo le agorà, le piazze centrali delle polis, dove si andava a passeggiare e a parlare e sparlare di tutto e di più, le hanno inventate loro. Ma voi ve lo immaginate la domenica mattina in Grecia, orario aperitivo, i mariti che discutono nell’agorà belli tranquilli e le mogli che li aspettano a pranzo, considerando che manco c’erano i telefonini?

«Il tempo è un bambino che gioca, che muove le pedine», avrebbe detto Eraclito. «Nossignore!» sarebbe stata la risposta di Zenone «Nessuna perdita è più importante di quella del tempo, dato che è irreparabile». «Voi non avete capito niente,» avrebbe controbattuto Platone, «il tempo è l’immagine mobile dell’eternità».
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Metteteci pure che certe volte alla compagnia si univa pure Socrate secondo cui il tempo manco esisteva, ed ecco che le disgraziate mogli di questi baldi giovani venivano puntualmente “piantate in asso”. «Eh no,» avrebbe urlato a quel punto Pitagora, che era pignolo e metteva regole per tutte cose, «sei ignorante, più ignorante della calia! Non si dice “piantare in asso”, si dice piantare in Nasso!».

E nonostante il malocarattere di Pitagora, dobbiamo ammettere anche se lo abbiamo sempre detto pensando che si facesse riferimento alla prima delle carte da gioco, che tiene ragione lui perché effettivamente si dice: “piantare in Nasso”. Ma che cosa è questo Nasso e da cosa viene? Come sapientemente sapevano fare solo i greci, la risposta di ogni cosa alla fine sta dentro i miti. Questo significa che se un politico aveva qualche cosa di importante da comunicare ai cittadini o ai sudditi, raccontava il mito e tutti capivano di cosa si stesse parlando, dove voleva andare a parare e quale era la soluzione (quelli odierni sono più orientati verso la barzelletta, ma come diceva Parmenide tutto è in perenne fluire, tutto è in continuo divenire).

Nasso, in realtà, è la più grande delle isole Cicladi della Grecia, situate nel mar Egeo, che guarda caso nel 500 a.C. aveva la città commerciale più importante che si chiamava Naxos (vedi Giardini Naxos). Ora, cosa centra questa isola con il lasciare in asso o Nasso che sia? Semplice, tutto parte da Teseo.

Secondo questo mito ci stava il re Creta, Minosse, che aveva due problemi: non era tanto ben visto dai suoi sudditi e non si sa perché era un accumulatore seriale di tori. E dato più ne hai più ne vuoi, un giorno Minosse pensò bene di scrivere una letterina, tipo quella di Babbo Natale, a Poseidone chiedendo in dono uno splendido toro. «Ma fra tutto quello che mi puoi chiedere», fece perplesso Poseidone, «proprio un toro?» «Eh sì!» rispose Minosse «Se me lo regalate voi in persona… pardon, in divinità, i miei sudditi diranno “guarda che amicizie in alto che tiene Minosse! Guarda che importante Minosse!” e si quieteranno tutti.»

Buono è, buono è, alla fine s’accordarono con la clausola che il toro dovesse essere in fine consacrato con un sacrificio proprio a Poseidone.

Eh, ma Minosse aveva pure lui la malattia del politico moderno e dopo avere fatto la promessa, ovviamente, non la mantenne: sacrificò così altro toro e si tenne quello sacro perché gli piaceva di più. Poseidone giustamente andò su tutte le furie e per vendicarsi, usando un trucco di magia, fece sì che la moglie di Minosse lo facesse cornuto proprio col toro (pure tu, Pasifae, con tutti i cretini che c’erano a Creta proprio con il toro dovevi finire a letto). Dall'unione nacque il Minotauro, una creatura scanazzata, maleducata, che faceva danni a destra e sinistra dalla mattina alla sera.

Il povero Minosse, che ancora poveretto gli prudevano le corna, andò a chiamare Dedalo (una sorta di Renzo Piano del tempo) per costruire un labirinto ove rinchiudere la bestia. Per questioni burocratiche che non stiamo qui a dire, Atene, allora sottomessa a Creta, era costretta a mandare ogni anno sette fanciulli e sette fanciulle da dare in pasto al Minotauro perché sennò diventava nervoso. Teseo, figlio d’arte perché figlio dell’eroe Egeo, un giorno si offrì di fare parte del gruppo per sconfiggere il Minotauro perché la situazione era scappata di mano.

E siccome il ragazzo era bello come il sole e con la testa sempre al cacio, appena arrivò di fronte al labirinto di Cnosso fece innamorare Arianna (figlia di Minosse) che sperando di rivederlo per sposarselo gli diede il famoso gomitolo di lana, con cui non perdersi dentro il labirinto, e una spada per uccidere il Minotauro. Comunque, in buona sostanza, alla fine Teseo riuscì ad uccidere il mostro e uscire dal labirinto, prendendosi pure in pegno Arianna, che caricò sulla nave, mettendo in atto una delle prime fuitine della storia e salpando a vele spiegate verso Atene.

L’eroe a quel punto, ricordando che suo padre gli diceva sempre “Tesè, moglie e buoi dei paesi tuoi, e fuori dal letto nessuna pietà!”, pensò bene di dirottare per l’isola di Nasso e regalarsi una notte di passione con Arianna alla tipo “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto”.

La mattina appresso, ottenuto quello che doveva ottenere, il buon Teseo, fresco e pettinato come un quarto di pollo, salì sulla nave e lasciò la povera e innamorata Arianna sull’isola di Nasso. Da qual giorno, dunque, per colpa di Teseo, quando qualcuno ti lascia in tredici si dice “piantare in Nasso”.

Alla lasciata in “tredici” ci torniamo nel prossimo articolo.
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