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La storia del (sublime) cous cous dolce di Palermo: la specialità monastica dimenticata

Il poeta Meli lo ha celebrato nel poemetto "Li cosi duci di li batii": questa delizia, insieme alle "fedde", era una delle specialità del Monastero del Gran Cancelliere

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 16 ottobre 2022

Il cous cous dolce di Palermo

“I granelli di semola sono canditi in sapiente mistura col pistacchio tritato finemente, in modo da assumere un certo colore verdigno e una certa sfumatura di sapore; e poi disposto su una guantiera, cosparso di cacao e ornato di lasagne di zucca candita e ciliegie, un dolce degno di un’agapè angelica". Così Leonardo Sciascia descriveva il cous cous dolce di pistacchi, nel 1964. Il cous cous dolce, chiamato anche "cous cous asciutto", era una squisita specialità monacale: nel Settecento veniva realizzato ad Agrigento nel monastero di Santo Spirito e a Palermo nel monastero del Cancelliere.

"E lu cuscusu non è benfattu…tantu mi piaci ch’eu sulu u piattu/ Di sei rotula puru mi l’agghiuttu” (E il cous cous non è forse ben fatto? Non è gustoso e saporito in tutto? Tanto mi piace che io da solo ne riesco a mangiare un piatto enorme di sei rotoli), con questi versi l’abate Meli ne celebrava la bontà, nel poemetto in versi Li cosi duci di li batii.
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Il poeta, che era anche medico, era conosciuto come "l’abate Meli" perchè amava vestirsi da sacerdote (anche se era un laico) e aveva così facile accesso nei conventi, ottenendo dalle monache ogni tipo di manicaretto.

Il monastero di Santa Maria de latinis sorgeva in Via del Celso, nei pressi di Corso Vittorio Emanuele a Palermo. Il popolo però lo chiamava monastero del Cancelliere, perché a fondare l' edificio religioso era stato nel 1171 il pio Matteo d'Ajello, salernitano, gran Cancelliere di Sicilia, ossia primo ministro, sotto i re normanni Guglielmo I detto il Malo e Guglielmo II detto il buono.

Il monastero aveva il titolo di Santa Maria de latinis, per essere distinto da di quello di rito greco del SS.mo Salvatore che sorgeva a poca distanza. Nel 1584 si trasferirono al monastero del Cancelliere, con il permesso del Sommo Pontefice, le monache olivetane del monastero di Santa Lucia al Papireto, a causa dell’insalubrità della zona, che era paludosa perché vi ristagnavano le acque del fiume quando esondavano.

Nel 1590, la primitiva chiesa del monastero, d’origine normanna, venne riedificata: fu consacrata dall’arcivescovo Domenico Rossi il 12 Aprile 1739, festa della Madonna dell’Udienza o della Perla. Il monastero custodiva infatti un prezioso manufatto: l'icona della Madonna della perla (oggi al Museo Diocesano), dono del cancelliere Matteo D’Ajello.

Le monache benedettine avevano una loggia coperta sul Cassaro (corso Vittorio Emanuele) per assistere in segreto, celate da fitte grate, ad ogni processione e ad ogni pubblico spettacolo. Le suore possedevano inoltre nella contrada di Scannaserpi o di Sampolo alli colli, una villa di campagna, dove si trasferivano due volte all’anno, "per trovare bell’agio nelle fiorite stagioni".

Oggi questo convento di campagna, eretto nel 1774, è diventata parrocchia col titolo di SS.ma Maria Ausiliatrice. Il monastero e la chiesa del Cancelliere vennero rasi al suolo dai bombardamenti angloamericani del 1943. Fino a quella data le monachelle avevano continuato a pregare per il loro fondatore, Matteo D’Ajello, morto diversi secoli prima.

Alcune opere di pregio del complesso religioso vennero messe in salvo per tempo da Monsignor Pottino, all’epoca direttore del Museo Diocesano, e si salvarono miracolosamente dalla distruzione. Tra i ruderi dell’edificio si accamparono negli anni del dopoguerra alcune meretrici, per ricevere i loro clienti.

Anticamente le monache del Cancelliere preparavano prelibatezze che vendevano alla ruota del parlatorio. Le loro specialità erano appunto il cous cous dolce di pistacchi e le rinomate fedde, che erano ritenute dai palermitani squisite ghiottonerie superiori per bontà a tutti gli altri dolci.

Venivano ancora ricordate nelle pagine della guida gastronomica del Touring club d’Italia del 1931, ma a poco a poco sono cadute nell’oblio.

Le fedde si ottenevano grazie a una formella a cerniera, a forma di conchiglia. Si foderava lo stampo con pasta di mandorle e si farciva con crema e confettura d'albicocche.

Chiudendo la formella un po' di confettura fuoriusciva. Scriveva l’abate Meli "Chi cannola, cassati e cassateddi/ mustazzola, nucatuli e pupiddi!...Pì quattru feddi di lu Cancidderi/ Farria sett’anni cu rimi in Manu!” (Ma quali cannoli, cassate e cassatelle, mustazzola, nucatoli e pupi di zucchero! Pur di mangiare quattro fedde del Cancelliere farei anche sette anni a remare ai lavori forzati).

Le ex studentesse del pensionato del monastero di Santa Caterina ricordano ancora con grande nostalgia il cous cous dolce e le fedde che preparavano le monache domenicane negli anni '80 del secolo scorso ma, scriveva Antonino Uccello nel 1981: "Per eccessiva elaborazione alcuni dolci quali le fedde del Cancelliere e le paste delle Vergini risultano antieconomici e non vengono più confezionati". Ecco perché sono stati dimenticati, aggiungiamo noi.
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