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La vera isola del tesoro è la Sicilia: le 63 "Truvature" custodite da spiddi e giganti

Racconti fantastici che parlano di tesori che, per essere disincantati (o slegati o “spenti”), richiedevano particolari rituali e/o il superamento di complicatissime prove

Elio Di Bella
Docente e giornalista
  • 15 agosto 2022

“TRUVATURA/ s. f. | scoperta, tesoro nascosto/sconosciuto, potenziale ricchezza”: questo leggereste in un dizionario siciliano, consultandolo alla voce truvatura.

L’etnologo siciliano Giuseppe Pitrè annovera ben 63 di questi tesori sparsi tra le diverse località della Sicilia e un altro etnologo, Salomone-Marino, ha scritto che “la trovatura”, ossia il tesoro nascosto è pel villico “la costante aspirazione, il sogno di tutte le notti”, il desiderio intenso, il pensiero che non lo lascia un minuto mentre nel campo avvolge le zolle e raccoglie i prodotti.

I più anziani ancora ricordano che spesso nelle lunghe e fredde sere d’inverno, le famiglie si riunivano intorno al focolare e i vecchi narravano ai più piccoli, miti, credenze e leggende popolari che riguardavano le truvature, cioè favolosi tesori incantati, nascosti e custoditi da folletti, spiriti, giganti e demoni.

Tesori che, per essere disincantati (o slegati o “spenti”), richiedevano particolari rituali e/o il superamento di complicatissime prove.
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Racconti fantastici che ascoltò anche l’agrigentino Andrea Camilleri che, a tal proposito, scrive: “è un tesoro che un povero contadino rinviene casualmente nel terreno che sta zappando, tesoro che gli cambia per sempre l’esistenza facendolo diventare favolosamente ricco. Di solito la truvatura consiste in alcuni contenitori di terracotta (giare o quartare) stracolmi di monete d’oro, nascosti anticamente sottoterra dai briganti o da qualche proprietario terriero minacciato nelle sue ricchezze e da allora mai più potuti recuperare”.(Andrea Camilleri, “Il cielo rubato”).

Anche in provincia di Agrigento sono molte le leggende legate a questi tesori nascosti e incantati. Nella Città dei Templi troviamo la credenza che gli stessi Ipogei siano incantati.

Si racconta di tre uomini con lo stesso nome che, una volta, si incontrarono casualmente a mezzanotte presso una grotta e vi entrarono. Subiti udirono un vento furioso ma, caparbiamente, andarono avanti per quei corridoi e quelle grotte. Arrivarono così dentro uno stanzone pieno di monete d’oro e d’argento e tante altre cose preziosissime, tutte a tre a tre: tre carrozze (una d’oro, una d’argento e una d’avorio), tre tavoli, tre casse di monete, ecc.

Ogni cosa era d’oro massiccio e ricoperta di pietre preziose. I tre uomini cercarono di raccoglierne il più possibile ma, quando vollero andarsene, non trovarono più l’uscita dell’ipogeo. Il tesoro che avevano trovato era quello del leggendario tiranno akragantino Falaride.

In alcuni casi, l'incanto si compie uccidendo un uomo sul posto in cui è stato nascosto il tesoro e questo può essere scoperto con un nuovo tributo di sangue.

A Racalmuto il tesoro da “spegnere” si trova nell’antico Castelluccio che domina il paese. E’ stato lasciato dagli Arabi dopo che furono sconfitti dal normanno Conte Ruggero. Ci sarebbe un solo modo per trovarlo: due amici si devono recare in una notte di luna piena al Castellucio. Ma la cosa non è così semplice.

Uno dei due amici, non si sa quale, uscirà di senno quando scoprirà il tesoro e così l’altro si assicurerà l’intera fortuna. Quindi uno dei due amici diverrà ricchissimo e l’altro solo povero e pazzo. Chi mai rischierà tanto?
In paese si dice che molti si sono dati da fare per bucare le murature del Castellucio alla ricerca dei tesori, da quando il maniero è stato abbandonato. In anni recenti ci avrebbero provato persino facendo brillare candelotti di dinamite. A quanto pare, una volta con una forte carica di dinamite alcuni vandali tentarono di fare crollare l’intero edificio per scoprire il tesoro d’oro. Ma fortunatamente la montagna su cui sorge e che sostiene l’edifico resistette e per il Castello non vi furono gravi conseguenze.

Nelle vicinanze di Caltabellotta «sorge un monte chiamato Monte Calvario, nel quale c’è una grotta con un gran tesoro. Questo tesoro può prendersi scannandoci sopra una persona e versandovi sopra il suo sangue. Un tale sognò una volta che disincantava quel tesoro e riuscì a indurre un suo amico a unirsi con lui per il disincanto, tacendogli, però, il suo pensiero di volerlo uccidere per spargere il suo sangue al suolo. Andarono entrambi ma il povero tradito accortosi del coltellaccio del traditore fuggì e questi, continuando lo scavo incominciato, trovò solo una pentola piena di gusci di noce».

A Casteltermini, nella grotta del Pizzo si localizza un tesoro il quale per essere smagato richiede « sangue di picciliddi » cioè “sangue di bambini”. Si racconta che nei pressi di Naro (Agrigento) c'è un monte chiamato la Montagna del Furore, dove è nascosto un immenso tesoro. Per disincantarlo occorre sacrificare sul luogo addirittura sette bambini innocenti.
A cavaliere d'una lunga serie di colline, a mezzogiorno di Canicattì, sorgono due enormi rocce dentate, dette Pizzo Giummello (piccolo giummo).

Qui viveva un gigante, Manu di ferru, che vinse sotto la montagna una grande battaglia e con un pugno ruppe in due la roccia e sotto vi seppellì le armature nemiche e il suo tesoro. Per disincantar questo tesoro bisogna mettere insieme “centu cantàra di spogli di cipuddi”, cento quintali di spoglie di cipolle. Quando s' è preso un innocente e lo si è scannato, a mezzanotte Manu di ferru compare.

Presa una bilancia enorme comincia a pesare le spoglie di cipolla e comanda a tutti i venti perchè infurino terribilmente. Se neanche una spoglia vola, la bilancia cade e le enormi rocce dentate cozzano fortemente tra loro frantumandosi, e il tesoro è disincantato.

Riportiamo infine il testo di Giuseppe Pitrè sul tesoro nascosto nella Rocca di Busunè. “Questa Rocca è un gran sasso in mezzo a un largo campo che si stende sulla strada che da Girgenti (Agrigento) conduce a Raffadali. Ogni sette anni, a mezzanotte in punto, questa Rocca si apre dalla sommità, e vi si celebra la fera di li 'nganti (la fiera degl'incanti), con frutta tutte d'oro, che possono comprarsi con poche monete; fiera che dura quanto durano i tocchi della mezzanotte; all'ultimo de' quella Rocca si richiude, e chi s'è visto s'è visto.

Un capraio di grosso cervello una notte d'inverno passando per quella strada, allo scoccar della mezzanotte, vide la Rocca tutta illuminata, indi aprirsi alla sommità, e certe figure bianche invitarlo ad entrarvi. Entrò e vide la caverna popolata di altre numerose figure lunghe, vestite di bianco, vaganti qua e là; venditrici di limoni e di arance e d'altre frutta, invitarlo anch'esse, in una lingua incomprensibile e con certi cenni, a comprar qualche cosa.

Egli non avea un quattrino, e le venditrici frugandogli le tasche gli trovarono un granu (cent. 2), e per esso gli vendettero tante arance da riempirgli le bisacce. Quelle arance erano d'oro. Condotto per mano, uscì dalla caverna, e la rocca, scotendosi dalle radici, si richiuse e ridiventò oscura, tanto che dalla paura il povero capraio si svenne.

Il domani, ritornato in sensi, si trovò disteso sull'erba, con la sua bisaccia e le sue arance d'oro. Giunto a Raffadali e raccontato il tutto al padrone, questi, col pretesto di farle benedire, si fé' dare le arance, e gli regalò dodici tari (L. 5,10). Ma quando, all'andar del capraio, volle metter fuori quel tesoro, le arance s'erano convertite in un mucchio di gusci di lumache”.
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