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Le fave secche, la cenere e "u Patri Nostru": riti (e scongiuri) per trovare marito in Sicilia

Tra religione e superstizione un simpatico racconto su antiche preghiere e rituali siciliani, come i tre curiosi metodi delle zitelle per conoscere i loro futuri mariti

Giovanna Caccialupi
Perito chimico industriale
  • 26 maggio 2024

Una scena dello spettacolo «Sorelle zitelle»

Alfina, nubile cugina della nonna, veniva a trovarci molto spesso (restava con noi una settimana al mese) e dedicava tutto il tempo a catechizzarmi, mi raccontava la vita dei Santi martiri e descriveva le loro indicibili sofferenze con un’espressione beatamente avida e tra la descrizione di un supplizio e l’altro intercalava sempre: “mia d’iddu” o “mia d’idda” che esprimeva la bramosia di essere crudelmente martirizzata al loro posto!

La sera prima di addormentarci mi faceva ripetere tutte le preghiere che mi aveva fatto imparare a memoria e alla fine con tono minaccioso diceva: «Ora dumanna piddunu a Diu di tutti i to piccati, picchi si mori ‘ndo sonnu, ti nni vai o ‘nfennu e bruci pi l’eternità!».

Per non morire nel sonno, cercavo di non addormentarmi, a circa sei anni avevo già insonnia da ansia!

Una sera durante le consuete preghiere, nel silenzio della campagna circostante risuonò il lamentoso canto della civetta e Alfina atterrita mi spiegò: «Quannu canta a piula, cala a cruci supa u quatteri , veni a diri ca a brevi morunu tri cristiani!» (Non ho mai saputo se il pericolo incombesse solo sui residenti o se anche gli ospiti fossero a rischio).
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Le preghiere vennero momentaneamente interrotte, per eseguire uno scongiuro che augurava il morto in casa alla civetta e del quale ricordo solo le ultime frasi: «‘nda me casa sonu di tammureddu e ‘nda to casa scrusciu di matteddu

Tra le tante lezioni della cugina Alfina, ricordo che uscendo dalla chiesa dopo la messa non si deve mai fare il segno della croce bagnandosi le dita nell’acqua benedetta: «Annunca ti pigghi tutti i pinseri e i cardacii di tutti chiddi ca trasennu e si bagnanu i mani pi farisi a cruci

- «A sira prima ca ti cucchi, non ta tailari ‘ndo specchiu, picchì c’è u diavulu ca ti tenta

Molto attesa dalle ragazze da marito era la festa di San Giuanni, o meglio la notte che la precede, notte nella quale veniva loro svelato il futuro. I sistemi adottati erano tantissimi, ne ricordo solo alcuni: dalle tre fave, al piombo fuso, alla cenere.

La suddetta sera, prima di andare a dormire, si ponevano sotto il cuscino tre fave secche, una intera, una sbucciata a metà, e una sbucciata completamente. Al risveglio bastava infilare la mano sotto il cuscino (senza guardare) e prenderne una a caso: se con la buccia intera, marito ricco, buccia a metà marito dalle condizioni modeste, se priva di buccia marito povero.

La cenere invece veniva sparsa sul pavimento di una camera nella quale nessuno sarebbe più entrato fino al mattino successivo, momento in cui dai segni apparsi sulla cenere veniva fuori l’iniziale del nome del futuro marito.

Il piombo veniva fuso e versato nell’acqua fredda di un catino e dalla forma assunta se ne sarebbe tratta una somiglianza con qualche attrezzo da lavoro e veniva così stabilito il mestiere del futuro marito. Quando il piombo assumeva forme riconducibili a croci, teschi, significava malasorte o morte prematura per la ragazza.

Chi fondeva il piombo solitamente era una donna anziana, capace di “leggere” le forme assunte dal metallo e capace di fornire sempre ottimistiche interpretazioni!

C’era anche “u Patri Nostru di San Giuvanni” che poteva essere recitato tutti i giorni dell’anno, conosciuto solo da alcune specialiste che il più delle volte si facevano anche pagare. Dava risposta a qualunque quesito, dopo averlo recitato bastava ascoltare, e, una frase, un suono, un rumore, il verso di un animale veniva interpretato come un segno.

Più era importante il quesito, più isolato e silenzioso doveva essere il luogo dove recitarlo possibilmente a notte fonda, e il costo aumentava.

Erano considerati segnali positivi, l’abbaiare d’un cane, musica, canto, il canto del gallo. Erano invece segnali negativi, lamenti umani o d’animali, il canto della civetta, un oggetto che cade, una porta che sbatte. Invece le frasi di viandanti occasionali andavano interpretati in base al contenuto se conciliante o dissenziente.

“Cu va a fonti, non va all’altari” . Veniva sconsigliato alle coppie di fidanzati di tenere a battesimo un bambino perché sicuramente il fidanzamento si sarebbe rotto. Spesso si rimandava il battesimo a dopo il matrimonio.

Tra la famiglia del figlioccio e quella del padrino si stabiliva un forte legame, ritenuto sacro chiamato “u San Giuanni”, a volte era la naturale evoluzione di un’amicizia preesistente, ma spesso si stabiliva per convenienza: per il proprio figlio si cercava come padrino una figura importante, come una garanzia per il futuro del bambino.

Allora come adesso erano molto richiesti i politici e i professionisti. Quelli che proprio non potevano spendere, facevano battezzare i figli a parenti stretti, così la modestia della cerimonia e dei regali rimaneva in famiglia.

La preghiera alla Madonna dell’alto mare si recitava per conoscere in anticipo l’evolversi di qualsiasi vicenda. Prima di addormentarsi si poneva la domanda e poi si recitava per tre volte: «Madonnina dell’alto mari, vinitimi ‘nsognu ca vaiu a parrai, se pi beni, fatimi ‘nsunnari tavula cunzata, vigna caricata e Cresia parata. Se pi mali acqua correnti, spini pungenti e focu ardenti!»

A svigghia di San Giuseppi”, quando ancora non c’erano le sveglie, per svegliarsi con puntualità, bastava recitare 3 Padre Nostro a San Giuseppe e chiedere di essere svegliati ad una certa ora e pare che funzionasse!

Quelli che avevano avuto “Menu paroli ‘ndo battisimu” forse a causa di un parroco frettoloso o impreparato erano quelli capaci di captare , vedere o avvertire presenze dell’aldilà. Pare che questa carenza provocasse una mancata protezione che rendeva l’individuo vulnerabile.

Paulinu Cozzubu sin da quando era in fasce spariva dalla culla e veniva trovato in un altro posto della casa, sempre illeso e beatamente addormentato. Bastava una breve assenza della madre, e non era più al suo posto. Un caso da “menu paroli ‘ndo battisimu”.

Quando cominciò a parlare, a parole comprensibili alternava suoni strani e tutti furono concordi nell’affermare che Paulinu parlava l’arabo, sicuramente era saltuariamente posseduto da qualche spirito levantino.

Non fu mai consultato nessun interprete per verificare la bontà della teoria. Furono invece interpellati preti, esorcisti e maghi, ognuno di loro consigliava un rimedio, solitamente lunghe preghiere, alternate a riti che terrorizzavano il povero bambino che all’ennesimo spavento diventò muto, e per tutti Paulinu era guarito, era stato liberato dallo spirito arabo!
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