Del tempo, della memoria e di altri demoni
"Linee di ritorno" (ed. Manni, 10 euro) è una biografia in prosa di una scrittrice senza tempo. Occorre esordire così per cercare di battezzare i quindici componimenti di Francesca Traìna, cinquantenne palermitana, già autrice di una raccolta di versi (Dentro gli anni, 1999). Dalla saudade di Pessoa ai sortilegi di Mandel'stam, dalle sinfonie dell'Achmàtova alla genialità di Whitman si muove il prosare della Traìna. Tra i guanciali della letteratura l’autrice insemina la propria penna, spogliando il pedante verso e fuggendo alle regole della versificazione. È una prosa narrativa, una prosa di memoria dove niente è essenziale ma tutto necessario, perchè «le poesie non si devono capire. Bisogna ascoltarne la musica il canto per ricantarlo in noi. Il canto del poeta è ricerca di risposte».
Tutto ritorna in linee simmetriche, nel passaporto del Tempo, istoriato da passaggi notturni e da altri mossi da Parigi a Lisbona, da Palermo all'ovunque divorato e fuggito. A volte è un movimento statico quello della poetessa-viaggiatrice, in verticale, verso una profondità nostalgica che racconta di un esilio rincorso solo per non concedersi pace o per trovarla tra le spoglie consumate di un amore o di tanti. Pseudonimi invaghiti si celano dietro un'appassionata e dolente musica interiore, stridendo tra i contorni erotizzanti di questa passione femminea.
Fraseggi infuocati nella cadenzatura del verso, che non ha metrica ma solo il tempo del ricordo, rievocano la sensualità mistica e quasi obliante tipica della scrittura di quei circoli letterari tardo-ottocento. Rivivono gli echi notturni e vacillanti di Vivien Renée, la filigrana algida e precaria del prosare di Katherine Mansfield, il graffiante surrealismo di Djuna Barnes. Alchimie eponimiche sottolineano un'eleganza compunta e doviziosa in cui la scrittura pur precipitando in memorie dotte e incoscienti non smarrisce il senso del suo indagare.
Forte è il sentimento di appartenenza che l'autrice confessa verso la figura amata, un amore a volte ammalato, a volte nascosto e dissimulato. Si assiste in alcuni versi al parto dolente di queste confessioni, come testimonia la citazione della parte finale del sonetto shakesperiano (42) in cui si dipana la drammaticità di un triangolo amoroso. Come una risacca che ritorna a completare un disegno imbastito sulla battigia, così i versi della Traìna ritornano a definire le sagome dei propri fantasmi.
Le parole diventano rituali e parlano di sacrifici e conciliazioni ma nel retrogusto che intrattiene la mente del lettore vi è quel senso di addio che, nelle ultime pagine di questo breviario, diviene abbandono e che muta i toni pacatamente nostalgici dell'inizio in accorato avvilimento. È un libro da sperimentare, regalare, sorseggiare; capace di riversarsi dentro l'animo di chi lo tiene tra le mani facendo scorgere la propria linea di ritorno.
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