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Essere donna a Palermo: una questione di ruoli

  • 19 febbraio 2006

“Tremate tremate le streghe son tornate!”. Questo era lo slogan del movimento femminista negli anni settanta. Che fine hanno fatto le streghe? Qual è la condizione dell’ emancipazione della donna a Palermo? Ne abbiamo parlato con Anna Fici, sociologa, fotografa, esperta di nuove tecnologie e docente all’Università di Palermo, che ha una sua ricetta: liberazione dai ruoli assolutizzanti, assunzione di competenze e identità attraverso il lavoro, riconoscimento della “persona” prima ancora della donna. Cerchiamo di fare ordine: cominciamo dal passato. «La figura della donna è stata per molto tempo sommersa - afferma Fici - Le cose che la riguardavano erano legate alla famiglia, alla sua gestione, alla riproduzione dei valori culturali. Cosa di estrema importanza, tuttavia non riconosciuta, non legittimata esternamente». Così la donna svolgeva i lavori di casa e questi non venivano considerati come lavoro: il lavoro era solo quello esterno. La donna era vista come non-lavoratrice e ciò ha contribuito al rallentamento dell’emancipazione femminile, della conquista di indipendenza. Questo a volte diventa il problema di una vita, le condiziona in tutti i campi e causa fenomeni a catena. A Palermo va comunque fatta una distinzione in base aI ceti sociali. «I parametri di riferimento, le cose considerate importanti, per la signora di Ballarò e quella di via Libertà sono realtà incommensurabili», sostiene la sociologa.
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Realtà che vicendevolmente non si conoscono per niente e quindi non possono essere paragonate. Ma c’è un filo che lega tutte le donne nelle diverse realtà di Palermo, una cosa, a detta di Anna Fici, ancora non superata: «Oggi tutte le donne hanno la tendenza a interpretare, a seconda delle diverse tappe della vita, ruoli assolutizzanti. Sono monotematiche: si fidanzano e sono tutte fidanzate, devono sposarsi e sono tutte sposine, devono mettere al modo un figlio e sono tutte in gravidanza, poi diventano tutte mamme, vanno in palestra e diventano tutte "cremine". Hanno la tendenza a prendere con impegno assoluto quello in cui si mettono e ciò diventa una forma di autoetichettamento, un boomerang». Così è difficile trovare donne con cui parlare dell’ultimo virus che ha attaccato i pc o del modello di sviluppo economico europeo «anche se paradossalmente le donne oggi sono le più presenti all’università». Forse gli effetti si vedranno più in là perché «attualmente le donne adulte dai 30 a 50 anni ancora parlano di parrucchiere, di bambini, di dieta, di tv, che sono i tipici argomenti femminili, dovuti, appunto, all’assolutizzazione dei ruoli». Chi diventa mamma smette di essere compagna, amante, e leggerà l’articolo sulla rivista, trovata dal parrucchiere, che da consigli per riconquistare il proprio marito.

Ma le ragazze, cosa dicono, cosa fanno? Vivono certamente una situazione diversa da quella delle loro mamme. Molte di loro si fregiano del "figa power" che detengono. È questa la reazione? «In realtà, il figa power non è una grande conquista. Per affermarsi, l’estetica, l’essere donna, paga. Siamo noi stesse pilote di questo processo e usiamo questo potere di fascinazione che ci viene ascritto». Ma se sei single, ciononostante, sei un zitella. «L’uomo single è libero, la donna è una povera disperata. Questo resiste, anche se si sta attenuando, però è abbastanza pregnante. Agli occhi della società ci deve essere un motivo negativo: brutta, lesbica… non può essere una normale persona che non si sente di impegnarsi». Bisogna superare la tradizionale concezione che uomo e donna siano complementari per cui ognuno debba rivendicare le proprie pecularietà. Si dovrebbe cominciare a pensare alle persone in quanto tali. Il problema, secondo la sociologa, è prendersi un identità e un potere su un altro piano, che è sempre stato tipicamente maschile, ovvero la competenza in qualcosa. Una cosa grave è che le donne hanno ancora difficoltà a percepire il lavoro, non solo come strumento di emancipazione, autonomia economica, ma come uno strumento che da identità. Le donne tendono a pensare che hanno il problema del sostentamento e lo risolvono con tre metodi alternativi: un lavoro che permetta il sostentamento, un uomo che permetta il sostentamento, stare il più possibile nella famiglia originaria. Considerano le tre chance come equivalenti, perché il problema è il sostentamento e non quello di essere una persona». Lavorare significa attivare tutta una serie di rapporti. Per cui una persona può essere importante, detenere potere, essere fonte di preoccupazione nella vita di altre persone. Essere qualcosa, fare qualcosa è un fatto identitario, ti da forza, sei “quella persona”, compi la tua mission, quello che devi essere. Il riscatto vero passa dunque dal lavoro e dalla liberazione dagli stereotipi: «Paradossalmente - conclude Fici - anche le donne in carriera, le donne manager, finiscono per essere solo manager, più manager degli uomini appunto per questa tendenza assolutizzante». Ciò che si fa giornalmente, in definitiva, fa la storia di una persona e non quanti nipoti si hanno.

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