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“I fantasmi di Teledolores”, e il pallone diventa identità culturale

  • 19 dicembre 2005

Il calcio nella sua epicità, come filo conduttore e come lente di osservazione di Palermo in tutte le sue poliedriche sfaccettature. Tutto questo è il delizioso libro di racconti di Mario Di Caro “I fantasmi di Teledolores”, edito da Coppola Editore (euro 7.50), che è stato presentato il 13 dicembre scorso al Kalhesa, dove si sono trovati a illustrare l’ultimo lavoro dell’autore Marcello Benfante, Roberto Alajmo e Francesco Giambrone. Cinque storie in cui il pallone, inteso come sport condiviso da un’intera comunità, fa da sfondo e diventa specchio e simbolo di una città che nello sport ricerca la propria identità culturale. Qui il calcio è soltanto un pretesto narrativo, e rimarrebbe totalmente deluso chi in queste narrazioni volesse ritrovare quasi una storia della propria squadra del cuore. Questo è il racconto di una città nelle sue diverse stagioni: le guerre di mafia, il sacco di Palermo, la chiusura del Teatro Massimo nel lontano 1974 e la sua più che ventennale discesa nell’oblio. L’autore, con toni amari, ironici e grotteschi, in un’atmosfera quasi onirica osserva la realtà e traccia un percorso storico facendoci rivivere situazioni per i più giovani del tutto sconosciute, e per chi invece quei momenti li ha vissuti realmente, offre lo spunto di un’autentica e profonda riflessione, che è lontana da qualsiasi retorica ma anzi attraverso la scelta di un linguaggio e di uno spirito leggero riesce a dire molto di più.
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La storica finale di Coppa Italia Palermo-Bologna del 1974 e la sconfitta ai rigori viaggiano in parallelo con la chiusura del Teatro Massimo, i calciatori "eroi tragici" che perdono il proprio “duello” sono come gli eroi delle opere che popolano l’ultimo racconto di questo libro, intitolato “I fantasmi del Massimo”. Nabucco, Otello, Violetta, Carmen osservano con una tristezza che commuove la chiusura del Teatro, un episodio che ha segnato profondamente la nostra comunità, che da quel momento in poi ha cominciato a scendere giù per una china che ha portato all’assenza totale di qualsiasi fermento. E' stato quello anche l’inizio di un periodo nero fatto di magistrati uccisi - anch’essi eroi senza volerlo - per affermare valori come onestà e legalità e per non cedere a quel «puzzo di compromesso», citando il giudice Paolo Borsellino in una delle sue ultime interviste, che non ci fa assaporare il profumo della libertà. Seguendo il testo è come se ci muovessimo in un castello dove di tanto in tanto riappaiono i fantasmi del passato e di quello che siamo stati: già dal primo racconto, dal titolo “Teledolores”, che narra la vicenda di questa piccola emittente radiotelevisiva impegnata a rincorrere lo spettro del bandito Giuliano, possiamo ritrovare quasi una richiesta implicita di spiegazione delle ragioni profonde e dei veri colpevoli della strage di Portella della Ginestra (argomento del quale ultimamente si è tornati con forza a parlare). “Teledolores” rappresenta l’ultimo baluardo dell’informazione libera, una voce fuori dal coro così come lo era Peppino Impastato con la sua piccola radio nella Cinisi di Tano Badalamenti. La "primavera di Palermo", la riapertura nel 1997 del Teatro Massimo, il riappropriarsi degli spazi culturali, i sussulti di orgoglio e dignità nella popolazione all’indomani delle stragi e il ritorno ad un impegno civile, hanno portato un vento nuovo che ha accarezzato per molto tempo la nostra terra portando influssi positivi sotto tutti gli aspetti, e che auspichiamo ritorni a soffiare con nuovo vigore per scongiurare qualsiasi pericoloso fenomeno di normalizzazione.

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