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Il coraggio di “The Clan”

  • 29 marzo 2005

The Clan
Italia 2005
Di Christian De Sica
Con Christian De Sica, Paolo Conticini, Sebastian Torchia

Dare addosso all’ultima fatica di Christian De Sica sarebbe troppo facile e anche ingiusto, come sparare sulla Croce rossa. Accanimento senza frutto. E soprattutto senza gusto. Allora, perché non smetterla per una volta di fare i soliti snob con la puzza sotto il naso e di accantonare tali operazioni con aria da sufficienza? “The Clan” è un film coraggioso, e per tanti motivi. Chi avrebbe oggi il coraggio di fare un film così? Di rilanciare un genere ormai morto e sepolto come la commedia sofisticata e musicale anni ’50? “The Clan” non è come “Merry Christmas” o “Le Barzellette”, deplorevoli operazioni di marketing costruite a tavolino - puntando solo su grandi star (televisive) e sventolone da calendario - per intascare i soldi del biglietto quell’unica volta dell’anno in cui gli italiani vanno al cinema. Non c’è nulla di costruito, nulla di pianificato, quasi tutto è lasciato all’improvvisazione in questo instant movie girato in tre mesi tra la vera Las Vegas e la Bulgaria. Non si sfrutta nessuna moda del momento (a parte la recente rinascita del sinatrismo, capitanato da Micheal Bublè & seguito). Piuttosto l’immaginario che alimenta la pellicola appartiene a un’America da vecchia cartolina sbiadita, un’America da Nando Moriconi, tutta Las Vegas, Highways, Harley Davidson, teppisti-centauri stile “Il selvaggio”, emigrati dall’accento siculo in cerca di fortuna.

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Non sfrutta nessun grande nome (Max Tortora evidentemente non conta), ma ha il coraggio di affidarsi a esordienti poco avvezzi alla macchina da presa (cosa che si nota moltissimo). Per tutto questo “The Clan” è un film scritto e diretto col cuore, è una creatura di De Sica, il parto delle passioni e aspirazioni di una vita. È opera scritta più per ambizioni autoriali che per soddisfare il pubblico. Difatti non è pensato per un target definito, è poco etichettabile, come un “panettone natalizio” uscito a pasqua, un qualcosa che non è né commedia raffinata e intellettuale, né comico trash-cabarettistico. E alla fine poco importa se la creatura è riuscita male, se le parti da commedia sono prive di una vera sceneggiatura e per fare ridere si aggrappano solo a battutacce “de borgata”, se le parti da musical sono sgraziate e scontatissime nella scelta dei brani - oltre ovviamente a Frank Sinatra, Dean Martin e Sammy Davis jr, tutto il repertorio tipico di “un italiano in America”, da “O Sole mio” a “Luna mezz’o mare” - perché, in fondo, ogni scarrafone è bello a mamma soia.

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