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Il fronte della verità

  • 17 novembre 2006

FLAGS OF OUR FATHERS
U.S.A., 2006
Di: Clint Eastwood
Con: Ryan Philippe, Jesse Bradford, Adam Beach, Barry Pepper, John Benjamin Hickey, John Slattery, Paul Walker, Jamie Bell, Benjamin Walker

Ogni fotografia suggella il miracolo di un istante d’ispirazione e l’eternizza. Così il fotografo Joe Rosenthal, il 23 febbraio del 1954, quando i soldati americani sbarcarono nell’isola vulcanica di Iwo Jima e sei di loro innalzarono la bandiera sulla vetta del monte Suribachi, scattò una prodigiosa istantanea che coinvolse e sconvolse l’America di Franklin Delano Roosevelt. L’istantanea dei sei soldati con la bandiera fece aumentare vertiginosamente le tirature di vendita dei quotidiani, divenendo simbolo di eroismo e facendo conquistare a Rosenthal il premio Pulitzer.

Una foto misteriosa ed intricante che sembra aver ispirato il premio Oscar Clint Eastwood che, partendo dal libro scritto da James Bradley (figlio di John “Doc” Bradley, uno dei tre marines reduci, insieme all’altro autore Ron Powers) ha portato sullo schermo “Flags of Our Fathers”, con la complicità per la produzione di Steven Spielberg e per la sceneggiatura (dopo il capolavoro “Million Dollar Baby”), di Paul Haggis, questa volta in coppia con William Broyles Jr. E’ un film epico ed asciutto, profondo ed emozionante, che sa colpire al cuore, raccontandoci l’orrore di ogni guerra e le cocenti contraddizioni di ogni gesto d’eroismo, con un côtè malinconico come il suo tema musicale, composto dallo stesso regista ed eseguito al pianoforte col dolce supporto di una raffinata tessitura orchestrale.

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Sembra davvero che lo spirito di John Ford si sia reincarnato in quello di Eastwood. Utilizzando una struttura narrativa che incastra molteplici flashback (espediente usato per “Bird” e, in forma più circolare, per il memorabile melò “I ponti di Madison County”), il magnifico Clint gioca, in modo critico, con gli stilemi del realismo made in Usa. In un classico di Allan Dwan, “Iwo Jima deserto di fuoco”, per rendere più verosimile la celebre sequenza dell’alzabandiera, John Wayne fece mettere in posa i tre veri reduci di quella sporca guerra: Rene Gagnon, l’indiano Ira Hayes e John Bradley (che nel film di Eastwood sono interpretati, in ordine, da Jesse Bradford, Adam Beach e Ryan Philippe). Ricordiamo anche che la storia del più tormentato del trio, Ira Hayes, sconvolto dai rimorsi e preda dell’alcol, fu narrata da Delbert Mann né “Il sesto eroe” con Tony Curtis nel ruolo principale.
Il cinema, insomma, ci ha sempre narrato di un’America che celebra i suoi eroi e poi li abbandona, ne costruisce il mito e poi lo stigmatizza, utilizzando anche il caso come per quel fatidico giorno sul monte Suribachi, quando la prima bandiera innalzata venne rimossa perché giudicata di dimensioni troppo piccole e sostituita prontamente con una seconda, generando la fortuna di quegli involontari eroi. Era il quarto giorno della sanguinosa battaglia sul Pacifico che né durò altri trentuno. Senza alcuna ritrosia e con un senso di fatalismo da vecchio saggio, Eastwood, in questo magnifico e solenne “Flags of Our Fathers”, c’introduce nei corridoi del potere di un’America intenta, allora come oggi, a difendere la propria immagine (l’eroismo rimane uno dei tanti modi per far fruttare i Buoni del Tesoro) a costo di forzare la verità, perché di questa si conservi un ricordo glorioso.

Ma i veri eroi sono deboli ed inconsapevoli, sono i morti sui campi di battaglia, quelli che hanno regalato la loro vita per servire la bandiera, come il sergente Mike Strank (Barry Pepper che già interpretò il soldato Jackson in “Salvate il soldato Ryan”), Hank Hansen (Paul Walker) ed Harlon Block (Benjamin Walker). Tra le pieghe di una dolorosa memoria che vale la pena di recuperare in nome del cinema e della sua magnifica retorica, con un piglio omerico da cantore delle antiche gesta capaci di ammonirci intorno al valore e ai limiti del “fattore” umano, Eastwood compone il suo film-romanzo parlandoci del dolore delle madri che piangono i loro figli e del rapporto d’odio e d’amore tra diverse generazioni. E questa è solamente la prima parte di un dittico: aspettiamo con ansia il capitolo di “Letters from Iwo Jima”, girato in Giappone, dalla parte dei giapponesi e nella loro lingua, con Ken Watanabe. Un mutamento di prospettiva per restituirci, con la stessa robusta disillusione, il senso di vanità che contraddistingue le azioni degli uomini, sui campi di battaglia ed anche in tempo di pace.

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