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Il nuovo teatro di “Madre e Assassina”

  • 4 aprile 2005

"Madre e Assassina" di Pietro Babina e Fiorenza Menni, in scena al Teatro Bellini di Palermo sino al 10 aprile, è l’estremo sviluppo del percorso che il “teatrino clandestino” dell’Emilia Romagna da anni porta avanti indirizzandosi verso forme teatrali aperte a 360° ai nuovi linguaggi dell’età contemporanea.

Il “nuovo teatro”, scorporato dalla sua materia, è la questione che si propone al pubblico, lo spettacolo diviene il mezzo tramite cui porre in comunione la domanda: “Quello che la cultura dell’immagine ci ha tolto il teatro ce lo restituisce nella sua sola grande regola del qui e ora, ma trasfigurato nelle sembianze di spettro.” Madre e Assassina supporta questa esigenza: “racconta di una donna più che normale (Maddalena Sacer) che un mattino uccide i suoi due bambini; racconta di una ricerca più che formale di artisti (il ”Teatro clandestino”) che una sera uccidono gli attori, sostituendoli in scena con i loro fantasmi”.
La rappresentazione, che consta di un unico episodio scenico, si avvale di una serie di proiezioni filmiche su pannelli di tela intercambiabili che orientano l’illusione di una scena tout court, avvertita in trasparenza come pura didascalia, in una dimensione cinetica suggestiva connotata tragicamente dalla tridimensionalità dell’azione. Fotogrammi di un paesaggio in movimento, un’Italia immaginaria tra oggi e gli anni trenta, la famiglia Sacer, classico stereotipo borghese anni Cinquanta, appagata dalla nascita di un nuovo figlio batte la strada sulla via di casa. Inquietanti inquadrature da ripresa “dogvilliana” ritraggono l’idilliaca vita in famiglia scandita dalla monotonia ossessiva dei dialoghi della madre, ma il contrasto eccessivo dei toni cupi della fotografia (il direttore della fotografia anni ’50 è Gigi Martinucci) non lascia dubbi sull’imminente frattura narrativa: un’amica irrompe quasi inaspettatamente nel fresco pomeriggio di Maddalena Sacer proponendo una gita in città; tra revival di musiche del dopoguerra le due donne, a bordo di una Berlina anni Cinquanta, scandagliano il palcoscenico in tutte le direzioni…L’amica confessa la possibilità di una terribile catastrofe ecologica: “non noi Maddalena forse i tuoi figli…”. Del concetto di sano ci si occupa solo guardando il suo negativo, Maddalena Sacer, incrinata la propria felicità e essendone rivelata la fragile inconsistenza, si abbandona per la prima volta al male di vivere da cui non ha mai preso distanza.
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L’esaltazione di una non-razionalità, il contrasto insano tra l’io e l’es, l’impeccabile ottundimento dei sensi che ridestano misteriose forme di salvezza psichica, la follia ( o altro ?...) di una persona labile e disorientata che non ha mai acquisito piena maturità, traspaiono nel volto candido di una donna-bambina in cui lo sviluppo emotivo della personalità è stato frenato dal ribaltamento di ruoli dell’adolescenza: madre di se stessa, sdoppiata nell’illusione di un’autosufficienza a cui è stata obbligata. La rottura sul piano esistenziale si avverte dinanzi alla dicotomia tra l’interno e l’esterno: Medea inconsapevole della propria femminilità, Maddalena Sacer neppure avverte la crisi di coscienza. L’inconscio della Sacer prova orrore e sgomento rispetto alla plausibile (ma irreale sotto l’aspetto della logica razionale) catastrofe che investirà il mondo “generalizzato”di cui parla l’amica, e nel deliberato tentativo di salvaguardare il proprio vissuto individuale (così come i nevrotici nel rintracciare un senso al proprio operato si rivolgono antiteticamente rispetto al precipuo scopo), nel desiderio e dovere di proteggere la famiglia, la distrugge inesorabilmente sino ad annientare qualsiasi tardiva possibilità di pentimento. Scagliata nell’universo del non-senso, tradita dallo stesso gesto che la immortala autrice, Maddalena rinunzia a quel mondo che per eccesso di amore ha eliminato. La strage si consuma fuori scena, la stanza è chiusa a chiave, la logica umana e l’emotività materna si arrendono dinanzi all’eccidio “involontario”, l’ansia claustrofobia di controllo e protezione per i pargoli la spinge all’estremo gesto di appropriazione: morti i figli, appartengono a Medea che consapevole del gesto li sottrae per sempre a Giasone; morti i figli annullano l’esistenza della donna (Maddalena) che non capisce e chiede il silenzio: “Sono stata io?”-“Non ho alcuna memoria”-“La cosa è così come è”.

L’incomunicabilità tra il piano della comprensione e quello dell’agire si sfuma all’urlo atroce della madre che “realizza”, perduta la percezione del vissuto reale il mondo svanisce, sgretolandosi al primo atto di coscienza: “Sono uscita dalla mia vita e non so come rientrarci…”. L’atto poeticamente non interpretabile priva di catarsi lo spettatore, un’intervistatrice del reality show (razionalità dispiegatrice del mondo contemporaneo) acuisce il distacco tra la dimensione umana della presenza scenica falsa e irrilevante (Maddalena sul palco con il coltello macchiato di sangue) e quella puramente virtuale dell’immagine riprodotta. La scena che si dissolve nello smantellamento delle tele arrende il pubblico all’evidenza dell’indecifrabile, anche Brecht che ne condannava l’estrema fiducia ci aveva avvertiti : “non lasciatevi sedurre dalle illusioni!”
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