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L’ultima fatica letteraria di Salvatore Ferlita

Un viaggio a ritroso per ripescare dall’oblio quattordici autori sommersi

  • 1 agosto 2005

Nel suggestivo ristorante-libreria Malgiocondo di via Guardione 88 a Palermo, fra un pubblico ordinato in fila indiana, orecchie tese anche per via dell’audio basso, si è svolta la presentazione del libro “I soliti ignoti” (Dario Flaccovio Editore, prefazione di Andrea Camilleri, pp. 142, 13 euro) con la partecipazione dell’autore, il giovane trentunenne palermitano Salvatore Ferlita (dottore di ricerca in Italianistica, critico letterario e saggista), e dell’affabile Roberto Alajmo (classe ’59, scrittore noto e redattore alla sede siciliana della Rai). “I soliti ignoti” è una raccolta di saggi critici sulla letteratura italiana “sommersa” (dimenticata) del '900. Quattordici gli scrittori che Ferlita ha ripreso nel suo viaggio a ritroso. Ognuno con la sua verve, la sua straordinarietà, e la sua solitudine. Ne abbiamo discusso con lui.

Com’è nata l'idea di dar vita ad una mappa degli autori siciliani “sommersi” del Novecento?
‹‹L’idea è nata quasi per caso: mi è capitato, anni fa, di indagare sulla vita e l’opera di uno dei tanti scrittori siciliani dimenticati. Mi pare si trattasse di Antonio Russello: ho letto una sua raccolta di racconti, che era tra i libri di casa mia, e mi è parso subito di trovarmi di fronte ad uno scrittore vero. Un autore con un suo stile, e una precisa idea del mondo. Un libro, si sa, tira l’altro: così mi procurai altri suoi testi, romanzi soprattutto. Come La luna si mangia i morti, pubblicato da Elio Vittorini per i tipi della Mondadori: stiamo dunque parlando di una casa editrice importante, di un talent scout dal fiuto quasi infallibile. Russello poi ebbe la certificazione sul quotidiano “L’Ora” di Leonardo Sciascia, che recensì la sua prima opera: in poche parole, c’erano tutti gli elementi per “aprire il caso”. Russello poi fece da apripista: e così vennero Salvatore Fiume, Angelo Fiore, Ezio d’Errico, Franco Enna, e altri. Stiamo parlando di autori di tutto rispetto, stimati da critici raffinati, premiati in occasioni importanti, e però a un certo punto precipitati nell’oblio. Ecco: il mio operato, quasi da “necroforo cartaceo”, è stato quello di disseppellire questi autori, di riportare le loro opere alla luce, per aprire il discorso sul Novecento letterario, ridefinirne il canone. Ecco tutto››.

Da quanto si evince dal testo, si tratta di scrittori che, per loro natura, sono stati anche appartati, schivi. Questo loro lato caratteriale non avrà fatto da manforte al silenzio che è seguito su di loro?
‹‹E’ vero. Gli autori in questione sono quasi tutti accomunati da un fatto: il voler essere appartati, il non voler comparire a tutti i costi. C’è dunque, come ha scritto Andrea Camilleri nella prefazione, una componente caratteriale che probabilmente ha pesato sulla fortuna delle loro opere. Ma a fronte di questa sorta di sommersione volontaria, c’è stata però anche la disattenzione colpevole degli addetti ai lavori, dagli editori a certi critici, e a complicare il tutto, la volubilità del gusto dei lettori. Il problema del successo e dell’insuccesso è davvero una sciarada: Giorgio Manganelli diceva che a volte è l’eccesso di luce, a volte la sua totale assenza a determinarlo. Non si può stabilire un diagramma del trionfo di certi autori: stiamo parlando di qualcosa d’imprendibile, d’inesplicabile. Ci sono poi gli eventi storici, come nel caso di Fiume, le alterne sorti delle case editrici. La cosa importante però è che dalla sommersione, spesso si passa all’emersione: se si può favorire questo processo, ecco, ha ancora un senso, a mio avviso, il lavoro del critico››.

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Certamente. Da bravo dottore di ricerca in Italianistica, critico letterario e saggista, hai la passione per lo scavo ermeneutico dei testi “antichi”. Ma com’è il tuo rapporto con gli scrittori contemporanei?
‹‹Nel caso dello studio e dell’analisi di romanzi, racconti o raccolte poetiche del secolo scorso, c’è di mezzo il filtro del tempo, la distanza giusta per non prendere abbagli: come dire, si può agire con le spalle relativamente coperte. Quando invece ci si trova davanti ad uno scrittore della contemporaneità, le cose si complicano: non c’è la distanza giusta, il coinvolgimento eccessivo può anche accecare. Però va detto che, nel secondo caso, c’è il gusto della scommessa, dell’azzardo. C’è chi scommette su certi scrittori: se ci si sbaglia, si può perdere la faccia, la credibilità. Io ho scritto lo scorso anno un libro sulla letteratura siciliana contemporanea, che s’intitola Altri siciliani: una volta pubblicato, c’è stata la levata di scudi degli esclusi. Quando invece ci si occupa di autori belli e sepolti (nel mio libro i viventi sono solo due, Ugo Attardi e il grande e appartatissimo Mino Blunda), le rimostranze uno se le risparmia››.

‹‹A me pare che il libro di Ferlita abbia molti pregi, ma uno in particolare. Si fa capire. Non adopera un linguaggio oscuro per ammantare di densità delle riflessioni che poi magari risultano banali. No: tira dritto per dritto, racconta le cose come sono. E poi non spaccia per altrettanti geni i talenti che il tempo ha voluto dimenticare››, il commento su “I soliti ignoti” che ci ha donato Roberto Alajmo.

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