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"La seconda notte di nozze", l’impossibile amore possibile

  • 28 novembre 2005

La seconda notte di nozze
Italia, 2005
Di Pupi Avati
Con Antonio Albanese, Neri Marcorè, Katia Ricciarelli, Angela Luce, Marisa Merlini, Robert Madison

Se il cinema di Pupi Avati non è che un unico piano-sequenza a ritroso, un'evocazione autobiografica di mitologie e rituali trascorsi, quando non definitivamente perduti, allora non è difficile paragonare questo suo Giordano Ricci, personaggio protagonista de “La seconda notte di nozze” (presentato e visto da noi all’ultimo festival di Venezia), al professore interpretato da Carlo Delle Piane in “Una gita scolastica”: nei due c’è la stessa capacità di ascolto dei sentimenti, lo stesso abbandono di ogni resistenza nei confronti della seducente magia degli elementi naturali, la stessa voglia di perdersi nel silenzio per lasciarsi guidare dai più impervi moti dell’anima. La poeticità di Avati si ferma di fronte all’irrapresentabile tentando di sondarne il segreto. Anche in questa sua ultima opera, con il Giordano magnificamente impersonato da un Antonio Albanese che conferma la sua misura da sottile interprete degli ultimi pudori contemporanei (meritava la Coppa Volpi per questa sua perfomance!), con questo suo matto dal cuore semplice che vive in Puglia, nei campi di Torre Canne che gli appartengono, reduce da elettroshock di vent’anni prima, ora costretto allo sgradevole lavoro di artificiere e da sempre innamorato della stessa donna alla quale non osa dichiararsi.

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La vicenda si svolge nel 1947 quando Giordano vive con le dispotiche zie Suntina ed Eugenia, che si mantengono grazie alla loro fabbrica di confetti (una bella trovata quella di affidare i due ruoli alle straordinarie Angela Luce e Marisa Merlini, capaci di evocare da sole il retrogusto della grande tradizione del cinema e del teatro popolare che furono). A Bologna c’è invece la vedova Liliana Vespero (una sorprendente Katia Ricciarelli), una volta sposata con il fratello di Giordano ed ora ridotta in miseria. Per questo ella scrive una lettera al lontano parente spasimante. Il figlio Nino (Neri Marcorè) è un ladruncolo che non esita nemmeno a rubare l’argenteria in casa altrui, che ama il cinema e in modo particolare le storie avventurose di un divo di quei tempi, Enzo Fiermonte (qui con il volto di Robert Madison). E’ proprio Nino, con un auto rubata, a convincere la madre a mettersi in viaggio verso la Puglia. L’accoglienza di Giordano è naturalmente entusiastica, meno quella delle zie che non gradiscono la scandalosa presenza di quella donna segnata. Avati è bravo come al solito nel tratteggiare e descrivere un paesaggio malinconico ed abbacinante, l’identità geografica di un sud dove ogni storia è una storia a sé. Con “La seconda notte di nozze”, tratto da un suo romanzo, il regista realizza uno dei suoi film più intensi e delicati, ancora più riuscito del già apprezzabile “Il cuore altrove”.

La bella sceneggiatura si nutre di sottigliezze ed è attenta nel dosare ironia e dramma, mentre la macchina da presa si sofferma ad indagare con grazia i bravi interpreti. Risulta così miracolosa pure la presenza della Ricciarelli che, svestiti i panni melodrammatici, recita con inedita asciuttezza la sua Liliana, senza trucco, e modestamente vestita, cavandosela con grande autorità. In una delle scene del film, la vediamo rassegnata di fronte all’umiliante proposta del figlio Nino intenzionato a barattare il suo corpo in cambio di uno spinterogeno per l’auto in panne, richiesto ad un camionista di passaggio. E diventa impagabile il suo duetto con Albanese, quando finalmente Giordano gli propone attraverso un dialogo di commovente umanità, di sperimentare un tardivo congiungimento carnale, in nome di un amore da sempre inespresso. Avati sembra giocare di fioretto con il mito del cinema d’antan attraverso l’evocazione dell’aitante divo Enzo Fiermonte, interprete negli anni ’40 di film come “L’ultimo combattimento”, “Spie tra le eliche” e “Frà Diavolo”, pure presente, in qualità di campione di pugilato, nel capolavoro di Visconti “Rocco e i suoi fratelli”, dove recitava il ruolo dell’allenatore. In questo film sull’amore ritrovato e sulle nostalgie di una purezza possibile, pure le scelte musicali concorrono a squarciare il velo della memoria: “Cantando con le lacrime agli occhi”, celebre motivo di quegli anni è qui eseguito da Tony Santagata. La storia si chiude con una dedica “A tutti i bambini che fecero una grande luce”, alle vittime innocenti delle mine dimenticate, implacabile conseguenze di tutte le guerre, non solamente di ieri.

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