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La Sicilia emozionale di Marilena Monti

  • 16 gennaio 2006

E' un personaggio poliedrico che in modo autobiografico riscopre i mille volti della nostra terra, che assapora il gusto di ritornare alla piccola comunità, facendo un balzo indietro dalla grande città. Marilena Monti, cantautrice e scrittrice, guarda dentro le cose, ne resta affascinata, si emoziona, le scrive, canta e interpreta. Ha lavorato alla Rai Sicilia per più di venti anni. Autrice di testi e regista; per quattro anni è stata direttore artistico del Teatro Selinus di Castelvetrano. Semplice e senza fronzoli, usa essere diretta, con garbo e un pizzico di nervosa calma propria di chi sente le cose attorno a sé. Perché quando si è in amore con la propria gente, le proprie città, i costumi e le tradizioni, i colori vicini e lontani dei paesaggi interni e di mare, non si può non restare ammirati di fronte alla semplicità disarmante del bello, come anche arrabbiati quando s’incontra l’inespresso nascosto, dimenticato, distrattamente vissuto. "L’Isola Signora" (editore Coppola, pagg. 154 - 12,00 euro) è l’edizione riveduta di un viaggio di “emozioni in Sicilia”. Balarm.it ne ha parlato con l’autrice.

Perché questo titolo?
«Questo titolo nasce da una constatazione e da un amore viscerale. Ritengo, malgrado tutto, questa Isola una Signora. L’abbondanza dei doni, le tante testimonianze storiche, gli insegnamenti, i preziosi tesori sono tratti caratteristici di un grande spiritualità al femminile. Sarebbe ingiusto, pertanto, non dare il titolo di “gran signora” a questa terra-madre, nonostante le negatività di alcuni suoi figli».
Il sottotitolo è “emozioni in Sicilia”. Quale di queste emozioni, più di tutte, si rinnova volta per volta?
«Si può attingere a piene mani dai paesaggi. Un esempio? Giorni fa mi sono trovata a percorrere le strade interne di quella Sicilia nascosta – e in parte proibita – ai normali circuiti turistici. Lo faccio spesso per impegni di lavoro. Stavo andando alla volta di Canicattì, per un mio recital. Ebbene, tra terre coltivate e abbandonate, negli aridi torrenti fatti di pietre, guardando ai calanchi e alle forre, tra prati e montagne, insomma, in ogni dove – apparentemente distante – uno scorcio improvviso di acqua, il mare immenso, burrascoso, tempestato dal vento, infinito, a perdita d’occhio, sempre presente e in stretta relazione con il territorio interno, mi ha soggiogata. La sensazione che ne è derivata, più di una emozione, è stata quella della visione di una terra come corpo nudo di donna che respira e alita vita e che volta per volta si rinnova ai miei occhi».
Tra i “personaggi” del libro hai avuto un particolare ricordo per Rosa Balistreri e Ciccio Busacca. Vuoi parlarcene?
«Si, più che parlarne intendo esprimere un profondo senso di rabbia. Alla generosità della terra spesso si contrappone l’avarizia del ricordo, cosa che non accade, facendo un parallelismo, nella cultura partenopea; che invece, esalta, premia e conserva la memoria dei suoi grandi talenti. Ciccio Busacca era un interprete straordinario, con una vis drammatica, sarcastica e ironica fenomenale. Unico e grande, nei distinti ruoli, riusciva ad interpretare queste diverse facce in un solo personaggio. Ad eccezione delle giullarate con Dario Fo di Busacca oggi non resta alcuna traccia, nessun frammento, anche minimo, della sua opera. Il discorso cambia per Rosa Balistreri, della quale s’è ripreso a parlare. Finito l’oblio è il momento delle celebrazioni, meglio, delle speculazioni. I detrattori del passato sono oggi divenuti i primi grandi estimatori e promotori, come se lo fossero stati da sempre. Per questo, quando mi chiedono di Rosa, con la quale ho condiviso intensi momenti di lavoro, preferisco tacere».
Una piccola eccezione, per gli amici di Balarm.
«Potrei dire che la vita di Rosa è stata, come la sua opera, sofferta. Cantava il dolore, perché lo aveva vissuto in prima persona. Un aneddoto utile per capire: il primo paio di scarpe all’età di quindici anni, il lavoro minorile in miniera, il mangiare portato agli operai cantando, per darsi coraggio e sopravvivere, con un padre burbero a zittirla, che le diceva “perché canti? solo le buttane, cantano”».
Hai fatto teatro, cantato e ti sei dedicata alla regia e alla direzione artistica. Quale di queste esperienze ti ha più segnata e cosa ti è rimasta di ognuna di esse?
«Ognuna di queste mi ha lasciato qualcosa ed ha avuto la sua funzione nella mia vita. Penso che ognuno di noi abbia un karma. Il mio è la narrazione. La mia esistenza è narrare agli altri e per farlo ho usato tutte le forme d’espressione. Il teatro, per citare un esempio, mi ha soddisfatta incredibilmente. L’esperienza di direzione artistica al Teatro Selinus di Castelvetrano è stata, a dir poco, esaltante e al contempo commovente. L’aprire un teatro dopo trent’anni; il fare percepire a una città, specie se piccola, la sua potenzialità culturale; l’avvicinare i bambini delle scuole alla magia teatrale, alla “macchina dei sogni” in movimento; il dare un senso a un piccolo spazio di provincia, non più come semplice luogo di rappresentazione, bensì come agorà di dialogo, pensiero, costruzione e riflessione; tutte queste sono cose che segnano e interagiscono, lasciando un segno indelebile ovunque ti portino le tue canzoni, le tue poesia, la tua chitarra».
Quale altra “lezioni di vita” ti è rimasta dentro, che meglio esprime la tua “sicilianità”?
«Quand’ero a Roma, o sono fuori dai confini regionali, il mio pensiero era (ed è) alla Sicilia. Più che il senso di nostalgia matura il compito da svolgere: tornare a lavorare nella mia terra e per i siciliani. Tutto ha un costo, però. Non è facile lavorare qui. Talvolta, giocoforza, devi scendere a compromessi. Ciò nonostante sono riuscita a fare quello che avevo immaginato: parlare ai siciliani, per ritrovare il sentimento della propria dignità. Un modo per dire “no” al masochismo isolano di farsi del male pensando che tutto sia più bello oltre il confine. In pratica una forma di riscatto culturale che non scada nell’arroganza, ma ritrovi il valore nell’eterogeneità culturale passata e presente, che ha forgiato (e continua ancora oggi a farlo) il carattere vero, quel patrimonio concreto che la nostra gente rappresenta. Questi sono i concetti che cerco di esprimere nei miei recital, che da spettacoli itineranti si trasformano in pensiero positivo, riflessione di popolo».
Hai viaggiato molto per lavoro in tutta Italia, dunque. Restando alla nostra Sicilia, qual è la città che più di tutte esprime la Signora, quale l’Isola e quale le emozioni a tuo avviso?
«Signora, un tempo, era per me Palermo; la città che oggi non riconosco se non con il volto dell’aggressività e dell’arroganza. Mazara del Vallo, porta d’occidente, e tutta l’estrema area occidentale della Sicilia – Selinunte, Capo Granitola, Castellammare, etc. – per me esprime adesso, più di altre, la Signora, l’Isola e le emozioni. Quando guardo a questi mari, e penso ai popoli lontani nel tempo, ma anche a quelli vicini, non posso non considerare la differenza. In passato lo sbarco era paura, dolore, sangue, scorrerie e sete di conquista. Oggi è segno di pace, segni di nuova cultura e ricchezza, di antiche tradizioni che s’aggiungono e stratificano. Immagino uomini e donne come fertile humus, in bianchi velieri che approdano alle nostre coste, e non carrette del mare. Una visione che mi porta a sognare. Un sogno che è futuro, per creare insieme qualcosa di più bello».
A proposito di creatività; oggi ti dedichi molto ai laboratori di scrittura. Un tuo suggerimento a chi ama scrivere.
«Aprire il cassetto del cuore, impossessarsi del sentimento profondo, scrivere per necessità di farlo. Quante più parole hai, tanto più somigli a te stesso».
E per chi ama solo leggere?
«Identica cosa; i due aspetti non sono mai dissociati. In rapporto al coraggio: buttare il cuore oltre la siepe e cercare laddove gli altri non hanno mai cercato. Se questo poi viene comunicato, ancora meglio».

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