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Passione e dolore nel “Kohlhaas” di Marco Baliani

  • 17 ottobre 2005

Un ritmo costante, incalzante, e non solo cavalli al galoppo o in parata, i cavalli dell’allevatore Michele Kohlhaas, il protagonista del monologo "Kohlhaas" interpretato dall’attore e regista Marco Baliani, autore del testo insieme con Remo Rostagno, tratto da un racconto di Heinrich Von Kleist, una produzione Casa degli Alfieri, visto il 15 ottobre alle 21 a Palermo nello spazio ritrovato di una città in continua rinascita per la valorizzazione delle sue innumerevoli realtà architettoniche, il complesso di Santa Maria di Montervegini, ribattezzato per l’occasione Nuovo Montevergini. Lo spettacolo, in una serata dai toni e colori del piccolo grande evento, ha inaugurato con successo la rassegna Palermo Teatro Festival (ricordiamo che, per una giusta causa, lo sciopero dei lavoratori dello spettacolo, è saltato il primo spettacolo, “Tracce” sempre di Baliani, previsto per il 14 ottobre). Ma, tornando al lavoro teatrale, del ritmo dicevamo, un ritmo che è anche folla, quella folla di questuanti alla corte dell’imperatore il giorno fatidico del ricevimento per le suppliche, ovvero esercito, quell’esercito di ribelli, masnada di temibili disperati al seguito del mite Kohlhaas, divenuto condottiero suo malgrado per un infausto destino, inseguendo il percorso perverso di una giustizia impossibile ad ottenersi, ed ancora battito del cuore, quel cuore che l’infelice Kohlhaas sente più volte trafitto dalle tante spine dell’ingiustizia, stretto in un cerchio che dai recinti dell’inizio della pièce, materializzati davanti ai nostri occhi grazie alla bravura dell’interprete, diventa infine il cappio che ne conclude l’infausta esistenza terrena.

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È infatti la storia di un allevatore di cavalli, Michele Kohlhaas, narrata dall’attore semplicemente seduto su una sedia dall’inizio alla fine della pièce, che, cercando giustizia per due cavalli sottrattigli con l’inganno da un nobile dell’impero, si perde lungo i sentieri tortuosi della violenza e del sangue. Una poetica teatrale, quella di Baliani, che dall’uomo parte e all’uomo arriva, che è gesto e parola, carne e poesia, corpo e anima, capace di alterare il tempo (il qui e ora ci avvolge e ci trascina nella calda e suadente voce dell’attore) e lo spazio (la morte della moglie Lisetta, la foresta che prostra l’esercito del principe di Sassonia, il cui destino, come il seguito della storia poi ci rivelerà, è strettamente legato a quello di Kohlhaas, oltre alle folle di cui già abbiamo detto, e ancora tante sono le immagini presenti lì sulla “sedia”). La struggente forza del testo arriva per intero: «il potere della giustizia di Dio e di me stesso» dice il protagonista e si ritrova in un mortifero sogno di sangue e terrore dal quale sarà difficile ridestarsi e nel quale quel che si afferma è invece l’impossibilità per la vera giustizia, così quella umana come quella divina, per valore etico coincidenti, di essere. La gestualità efficace dell’attore, assai vicino peraltro al comunicare per gesti tipicamente siciliano, restituisce emozioni vive e presenti in un universo che, partendo dal racconto, si espande negli infiniti mondi dell’immaginazione dello spettatore, così largamente sollecitata. Per finire, chi scrive si ricorda di avere già visto questo lavoro rappresentato, a metà circa degli anni novanta, nell’aula magna della facoltà di lettere dell’Università di Palermo, e la sedia era diversa, ma non tutto il resto.

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