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Tu lavori, io non ti pago: la moda degli incarichi gratis

Il lavoro non nobilita l'uomo se è senza compenso, ma l'assenza di una retribuzione pare essere di moda. Perché oggi anche farsi sfruttare sembra un lusso

  • 23 aprile 2013

Una recente inchiesta dell’Espresso ha rivelato che sempre più spesso le pubbliche amministrazioni bandiscono incarichi per i quali non è previsto alcun compenso. Al professionista viene data la possibilità di maturare un’esperienza lavorativa che darà lustro al suo curriculum. Tanto gli basti.

In sé la notizia non stupisce. I desolanti bilanci delle pubbliche amministrazioni, ossi di seppia carichi solo di magrezza, non offrono alternative: le cassa sono vuote, la penuria di pecunia impone inventiva e spirito di adattamento. E poi avere un lavoro, anche se occasionale, è un privilegio di pochi: pretendere che venga persino retribuito è ingratitudine.

D’altra parte nessuno si scandalizza dinanzi ai giovani stagisti arruolati in piccole e grandi aziende dove molto faticano, poco imparano e nulla percepiscono. Eppure l’etichetta dello stage è solo un espediente per non retribuire prestazioni lavorative vere e proprie. Però qui c’è il pretesto della formazione, c’è il pudore di nascondere la realtà dietro una maschera presentabile. Un velo ipocrita, che racconta di una soglia di decenza ancora intatta.

La vicenda denunciata dall’Espresso, invece, supera con disinvolta sfacciataggine questa soglia. Il fatto sconcerta: per il cinismo con cui si sfruttano le difficoltà dei tanti giovani disposti ad accettare condizioni umilianti – tu lavori, io non ti pago – pur di introdursi in un circuito professionale; e perché l’avvoltoio pronto a lanciarsi senza troppi scrupoli sulla carcassa del più debole è un soggetto pubblico.

Certo, le ammministrazioni locali ricorrono a questa soluzione per contenere la spesa. Ma il sommo verbo del risparmio non può occultare la gravità del messaggio. Perché un lavoro non retribuito, occorre chiamare le cose con il loro nome, è solo una forma di sfruttamento; e la dignità del lavoratore dovrebbe essere considerata un valore non negoziabile.

C’era una volta una carta polverosa chiamata Costituzione, dove era affermato il diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e alla qualità del lavoro prestato. Sembrava un principio acquisito, ma ora suona come una nota stonata, perché si ritiene normale che il prezzo del lavoro sia integralmente determinato dal libero gioco tra domanda e offerta. Così una lenta deriva, mossa dall’egemonia dell’economia e accompagnata dal rassegnato torpore delle nostre coscienze, ci allontana dai valori in cui ci riconoscevamo e minaccia un futuro, un futuro che rimanda al più inquietante passato, in cui il lavoro sarà solo una merce e la dignità del lavoratore si risolverà nel valore che il mercato le riconosce.

Chi poi ritiene obsoleta la Costituzione, apra almeno un qualsiasi vocabolario. Scoprirà che l’idea di un lavoro non retribuito è una contraddizione logica: il lavoro o è retribuito o non è. Le torsioni del linguaggio, con i paradossi che consumano, tradiscono sempre sinistri smottamenti dei valori che significano.

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