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'U Fistino con le corna

Festa di piazza, nata nei vicoli del Capo, è diventata l'appuntamento più importante di Palermo. Centinaia di persone, anche di altri paesi e province, si ritrovano a piazza Bonanno, ogni 14 luglio, per iniziare la processione, con cui si rende omaggio alla Santuzza, la rignicola, cioè abitante fuori le mura, che liberò la città dalla peste. Per ringraziarla il popolo le offrì l'onorificenza più importante: la cittadinanza palermitana. 'U fistino è innanzitutto una scusa pi' manciari. Nato come ex voto, per grazia ricevuta, col tempo si è spogliato delle caratteristiche sacre, che sono sempre state picca, per diventare un enorme spettacolo, che ha mantenuto solo l'attenzione gastronomica, godereccia ed economica.

Un percorso a tappe, la processione offre la possibilità di vagare per le strade piluccando. Si può iniziare con la calia e la simienza, con o senza sale, che aprono l'appetito. Un consiglio è d’uopo: conviene camminare con i paraocchi, per evitare che le sputazzate del vicino, intento a raccogliere il figlio travolto dalla fauna disattenta, vi feriscano la retina. Non può mancare lo spincionaro, che allieta con il suo canto, sottolineando quanto sia sano e genuino il suo prodotto, pieno di quel pruvulazzo che ha sviluppato i nostri anticorpi in secula seculorum. Conviene anche non vestirsi con abiti chiari, le mani 'nsivate e stampate sulla maglietta sono una minaccia reale con cui dovete fare i conti.

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Inoltre bambini piangenti, diffusissima specie che si ritrova soprattutto nei luoghi pubblici, con in mano leccalecca giganteschi a forma di cuore, sostituti del vecchio gelato di campagna, o con lo zucchero filato, ondeggiano sopra le vostre spalle, attentando alla pettinatura appena fatta. Mille i piedi che dovete superare prima di arrivare alla baracchella che vende le specialità fredde: mussu e carcagnola, giardiniera con alive e a gentile richiesta la testa del capretto vugghiuta, adornata di occhi. Ma l'elemento senza cui il fistino non è fistino è u bellu piattu di babbaluci a cunigghiu. Il nome deriva dalla capacità di sostituire gli alimenti costosi con quelli più economici, mantenendo intatta, o quasi, la ricetta, come per le sarde a beccafico.

Piatto povero, i babbaluci sostituivano un secondo, dando l'illusione di mangiare carne. A riempire lo stomaco era ed è il panuccio inzuppato nel sughetto e per non perderlo i gusci si buttano nel cato o in una scodella vuota. La raccolta dei babbaluci richiede attenzione. Sono da evitare quelli sul legno o sul ferro, perché hanno sapore amaro. Una volta raccolti e chiusi bene in un sacco - altrimenti vi ritroverete lumache a farvi compagnia nel letto - si lasciano spurgare per 24 ore e poi si sciacquano con acqua corrente. Si mettono a cuocere a fuoco bassissimo in una pentola piena d'acqua. Il calore farà uscire i molluschi, facilitando la sucata, che è d'obbligo in questo caso.

Una volta cotti, si saltano in padella con aglio e olio, alla fine si aggiunge un po' di pepe e tanto prezzemolo. Alcuni li irrorano con un bicchiere di vino bianco, ma la versione originaria è la più apprezzata. Esistono delle varianti, a seconda delle città: a Trapani, patria dell'aglio, i babbaluci si condiscono con un battuto di pomodoro, aglio, olio e basilico. A Siracusa sono passati in padella con cipolla, pomodoro e peperoncino, mentre nell'interno della Sicilia si insaporiscono con aglio pestato e origano. Ecco un altro motivo per cui è consigliabile vestirsi molto casual, i babbaluci sono come i bucatini: schizzano ovunque e in genere colpiscono i posti non raggiunti dal tovagliolo.

La passiata continua fino a Porta Felice, dove i giochi di fuoco e la masculiata decretano la fine, ahimè, della festa. Per rinfrancarsi e risollevarsi dallo sfinimento, ci si siede alla Marina a mangiare una bella fetta di mulune agghiacciato o una bella granita di gelsi, pensando rincuorati “Anche stavuota ce l'abbiamo fatta!”: sopravvivere al fistino è un’impresa ardua.

L'Abbinamento

Già dal primo assaggio il quadro gustativo del nostro piatto si colora con netta determinazione di diverse sfumature. La sensazione tattile dominante è sicuramente la spiccata untuosità che unge la bocca e le mani, questi ultimi gli unici strumenti ammessi per consumare le lumache. La masticazione rivela anche un discreto corredo aromatico dovuto all’aglio e al prezzemolo aggiunti durante la preparazione. Sale e pepe completano il quadro gustativo in termini di sapidità e persistenza.

Trattandosi di una pietanza sicuramente poco strutturata, il vino in abbinamento deve essere “semplice” e proporzionato all’architettura gustativa della vivanda, anche se deve possedere un discreto tenore alcolico in grado di ostacolarne l’untuosità.
Per la verità si potrebbe anche ricercare nel tannino dei vini rossi il nemico ideale per fronteggiare questa caratteristica, ma nel caso specifico la scelta cade sicuramente su un bianco: dato il sapore tenue delle lumache, l’eventuale presenza di sensazioni dure, e quindi tanniche, nel vino altererebbe la delicatezza del piatto.

E' bene precisare, inoltre, che il grasso della lumaca è diverso da quello presente nelle carni bovine, nel preciso senso che è molto più "fragile" e solvibile in presenza di alcol, ed è quindi inopportuno ricorrere alle proprietà delle sostanze tanniche presenti nei vini rossi. L’ideale compagno di viaggio delle nostre lumache è in conclusione la tipologia bianco prodotta nella Doc Monreale.

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