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Viva il quarantenne vergine specchio delle nostre fragilità

  • 6 febbraio 2006

40 anni vergine (The 40-year-old-virgin)
U.S.A. 2005
di Judd Apatow
con Steve Carell, Catherine Keener, Paul Rudd, Romany Malco, Seth Rogen, Elizabeth Banks, Leslie Mann

Andy Stitzer è un quarantenne come tanti altri. Ha un buon lavoro (dipendente in un negozio di elettronica), è simpatico, intelligente ed esteticamente passabile. Tuttavia, la sua vita si muove su binari piuttosto diversi rispetto a ciò che la maggior parte dei suoi coetanei ritiene “normale”. Abita da solo in un appartamento che somiglia di più a un negozio di giocattoli: videogiochi, action figures (cioè costosi pupazzoni che ritraggono personaggi dei cartoni animati o delle serie tv), collezioni di soldatini, manifesti di vecchi film lo assediano ovunque, persino in bagno. Veste fuori moda, si sposta con una bicicletta munita di doppio specchietto retrovisore e ha una vita sociale tutt’altro che movimentata. Ma, la bizzarria più grave e imperdonabile, l’onta di cui vergognarsi (almeno in una cultura sesso-centrica come la nostra) è quella d’essere ancora un “verginello”. I colleghi di lavoro, che lo scoprono per caso, si incaponiscono nell’impartirgli lezioni e nell’organizzargli incontri di ogni tipo, affinché possa liberarsi di questa malaugurata condizione. Ma sarà lui stesso a costruirsi la strada per la maturazione e la responsabilità individuale, e a coronare il suo sogno con una donna che è esattamente l’altra metà della sua mela (vende gadget su Ebay).

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“40 anni vergine” è stato l’inaspettato cavallo vincente dell’estate cinematografica americana. Prodotto con un budget ridottissimo, reclutando la regia e la maggior parte degli interpreti dal mondo televisivo, ha saputo conquistare – grazie al maldestro ma sensibile Andy – le platee statunitensi, incassando centinaia di migliaia di dollari. Evidentemente il film è riuscito a sollevare esigenze avvertite da una gran fetta della società odierna, in cui l’alienazione individuale, unita alle pressioni che provengono da un mondo sempre più disinibito ma sempre meno rassicurante, possono diventare disagi diffusi. La sequenza in cui Andy si sforza di non pensare al sesso, ma non può farne a meno perché circondato da pubblicità ammiccanti, donne provocanti e allusioni d’ogni genere è, in questo senso, emblematica. Una commedia che vorrebbe dunque giocare la carta “sociologica”, perché analizza una nuova tipologia di individuo, il "nerd" (lo sfigato, diremmo noi), riflesso amplificato delle fragilità emotive e dei timori relazionali di ognuno, aprendo squarci anche su altre realtà urbane (conflitti razziali, madri separate con figli e così via). Peccato che la realizzazione non sia all’altezza dei propositi. Bisognerebbe domandarsi perché i ritratti degli sfigati al cinema, dalla “Rivincita dei nerds”, fino al recente “Napoleon Dynamite”, non hanno mai raggiunto risultati soddisfacenti: troppo superficiali, improntati esclusivamente sulla farsa becera e del tutto carenti dal punto di vista del realismo o dell’approfondimento psicologico.

Non fa eccezione neanche “40 anni vergine”, che potrebbe benissimo essere considerato una specie di “American Pie” oltre i sopraggiunti limiti d’età. Il campionario di situazioni comiche è, del resto, quasi identico: dagli appuntamenti maldestri (con un’ubriacona, un transessuale, una pervertita), ai riferimenti alla masturbazione e all’erezione, dagli impacciati primi approcci sessuali (come infilare il preservativo), agli inutili tentativi per sembrare "fico" (improbabili trattamenti di bellezza inclusi). Se a questo si aggiunge che ogni singolo dialogo (almeno nella versione originale non censurata) è infarcito di parolacce come neanche i fratelli Vanzina oserebbero, non si può non rimanere delusi da come un soggetto potenzialmente interessante sia stato sciupato per realizzare l’ennesima sboccata e sciapita commedia (post)adolescenziale, per giunta con finale scontato e moraleggiante. Dispiace, anche perché l’attore protagonista Steve Carell (che ha alle spalle un’onorata carriera nella tv americana) è straordinariamente convincente nei panni del simpatico disadattato. Scontata anche la sequenza conclusiva che, da “Shrek 2” in poi, pare ripresentarsi ormai identica in ogni film che sia almeno vagamente comico: tutti i personaggi della storia, senza alcun motivo apparente, si ritrovano a ballare, saccheggiando un vecchio successo musicale possibilmente degli anni settanta (in questo caso “Let the sunshine in”). Misteri delle mode cinematografiche.

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