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Pirati, giochi senza frontiere e le battaglie a Risiko: la Sicilia al tempo del vicerè Gonzaga

Questa è la storia di Ferrante Gonzaga, nominato vicerè sotto l'impero di Carlo V. Siamo nella prima metà del XVI secolo e la Sicilia è sotto il dominio della corona spagnola

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 26 aprile 2021

La statua di Ferrante Gonzaga a Guastalla, in provincia di Reggio Emilia

Siamo nella prima metà del XVI secolo e la Sicilia è sotto il dominio della corona spagnola.

Dal matrimonio tra Filippo il bello (che poi tanto bello non era) e Giovanna la Pazza (poverino il marito) nasce Carletto che, una volta cresciuto, diverrà l’imperatore Carlo V acquisendo più titoli di quante medaglie ha nel petto il generale Figliuolo.

È a lui dedicato l’aspetto attuale di Porta Nuova di Palermo da cui, a settembre dello stesso anno, fa ingresso trionfale in città. Nonostante i tentativi di farlo passare come uno dio greco, Carlo era piuttosto malo combinato, infatti soffriva di dolori alle articolazioni, epilessia, gotta e del cosiddetto mento asburgico, cioè un’asimmetria della mandibola che era causata dagli accoppiamenti inter familia (2/3 degli Asburgo ha mantenuto il mento da mastino napoletano per sette secoli).

E se da Porta Nuova entrava lui, era invece prassi regolare che i viceré arrivano tutti dal mare, si facevano la camminata del Cassaro fino alla Cattedrale dove venivano ufficializzati e poi via al Palazzo Reale dove li aspettava una ghiotta padella di fagioli alla Bud Spencer e un bello pezzo di sonno.
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Non c’era solo un viceré, ce n’era mediamente uno per colonia che, come i carri armatini del Risiko, venivano messi sui territori conquistati per dire all’avversario accura a chiddu chi fai! (attento a quello che fai). In quella passeggiata trionfale per la Sicilia, Carlo per la pressa V, cioè acciaccatello, si porta l’amico Ferrante Gonzaga che verrà nominato viceré.

Per la serie sta mano po’ esse fero e po’ esse piuma, Ferrante, che è un temibile condottiero alla Mario Brega, viene scelto appositamente perché la situazione dei mari è messa peggio di Pirati dei Caraibi. Il danno era un lira, contro la corona c'erano: il pirata Barbarossa, Dragut, che a dodici anni era già in mare, Sinan, chiamato “l’ebreo di Smirne” e temuto per la sua magia nera, e Aydin, detto “Terrore del diavolo”.

«Minchia,» avrà detto Carlo V, «consumati siamo!», e per questo motivo arruola il leggendario ammiraglio Andrea Doria, l’Achille del 500, distruttore dei corsari e di tutto quello che incontrava per mare. La flotta ammiraglia, compreso Ferrante Gonzaga, e i pirati se le danno per anni come se ammazzarsi a bastonate fosse un piacere orgasmico.

Questa dei buoni e i cattivi però è pure una minchiata col botto perché noi eravamo pirati per loro e loro per noi; per dirla alla Fabrizio De Andrè quando ci si trovava l’uno di fronte all’altro si aveva di fronte un uomo “che aveva il tuo identico umore ma la divisa di un altro colore”.

Gonzaga prenderà effettivamente la sua carica di viceré in Sicilia solo nel marzo del 1537. Sapendo benissimo che elementi di spiaggia giravano in mare (perdonate il gioco di parole), Ferrante si mette subito a fortificare le coste della Sicilia, soprattutto la zona orientale dove costruisce pure il castello Gonzaga che è ancora a Messina.

E mentre Ferrante si sbracciava per trovare muratori e capimastri in tutti gli angoli della Sicilia, Carlo V, che questa cosa del Risiko gli era letteralmente scappata di mano, si mette a organizzare una mega flotta che avrebbe dovuto contrastare quella di Solimano I, detto il magnifico, che era un altro appassionato di Risiko.

Al viceré venne il freddo, lui in fondo voleva fare il politico e invece di doversi armare di corazza e di spada e, ogni uno e due, partire a Dio e la ventura. Prima però torna Palermo e si mette a fare fortificazioni pure qua: i bastioni dello Spasimo, uno a Porta Carini, uno a porta Sant’Agata e uno che da porta Carini arrivava fino a Porta San Giorgio che oggi non c’è più e che si trovava scendendo da via Cavour.

Siccome questi muri erano un poco grezzi, forse i muratori non erano tanto bravi, fa fondere dieci cannoni e altra artiglieria e con il bronzo fa le decorazioni dei bastioni perché gli piacevano le cose fighette. Intanto sua moglie Elisabetta arriva a Palermo (forse per questo si era messo a sistemare casa).

Prima di arrivare a Palermo, la bella first lady soggiorna a Messina e Catania dove si ferma a guardare una delle più spettacolari eruzioni dell’Etna di sempre. Le viene costruito un bellissimo ponte a Palermo, pure lei dal mare arrivava, dove ad accoglierla c’erano 12 dame vestite di broccato (è un tessuto, io lo sconoscevo), tele d’oro e d’argento, cuffie dorate e cappelli con le piume.

Pure Evangelista di Blasi dice «con questa compagnia vestita in cotal modo bizzarro, che oggi si muoverebbe a riso», cioè che per quando dovevano essere tasce (di cattivo gusto) le pigliate per il culo arrivavano a mare.

Ovviamente, come tradizione voleva, per onorare la nobildonna, pure se il popolo puzzava dalla fame perché c’erano sempre problemi di fame, si organizzavano festeggiamenti di quelli internazionali. Se ne videro di tutti i tipi a Palermo nel corso dei secoli, ma quello che fece Ferrante Gonzaga per sua moglie non si vide mai più.

Oltre le solite confettate, bevute, trick track e bombe a mano, il viceré fu l’organizzatore a Palermo di Giochi Senza Frontiere. Cioè, non è che era proprio così, si chiamava caccia artificiale: questa stravagantissima follia veniva messa in atto nel febbraio 1538 a Piazza Marina perché era bella spaziosa e ancora non c’era la villa Garibaldi in mezzo ai piedi.

Si costruiva, nello stesso modo in cui fate il presepe a casa vostra, un bosco artificiale (penso con alberi e piante vere perché la plastica ancora la dovevano inventare) dentro il quale venivano messi animali veri.

I cacciatori venivano forniti di cani e falchi e, al grido di curnutu è l’ultimo!, ci si addentrava alla ricerca di conigli, pernici, cinghiali e volpi. Poi, siccome Gonzaga si divertiva così, ci stava pure un daino, un gatto selvatico e un lupo (da lì la canzone Attenti al Lupo).

Proprio il lupo era decorato con un collare d’argento che doveva essere tolto e dato in dono alla viceregina, sempre che non era il lupo a portare il braccio del cacciatore. Finito il primo atto, sigaretta, musica, venditori ambulanti, pubblicità, e si ripartiva con il duello di due cavalieri che inseguivano una ninfa dentro il bosco.

Per fantasia dello sceneggiatore che forse si era avvinazzato, spuntavano altre dodici ninfe che venivano assaltate da dodici uomini selvaggi con il bastone in mano (speriamo non sia allusivo), poi tutti assieme prendevano delle uova dorate ripiene di acqua profumata e le tiravano alla viceregina. Così finiva la caccia artificiale.

A parte questa breve parentesi di Giochi Senza Frontiere, la vita di Ferrante Gonzaga continuò tra mari, assalti navali, colpi di spada, cicatrici e partenze varie.

Morì a cinquant’anni a Bruxelles per colpa di ferite dopo una caduta da cavallo nella battaglia di San Quintino. Venne sepolto nel Duomo della sua Mantova.
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