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Quando in Sicilia c'era il "pasticcio di sostanza": la ricetta (dei nobili) dimenticata

La ricetta in due versioni di una delle pietanze dell'800, che dopo aver goduto di grande successo per un certo periodo di tempo, è finita poi per scomparire

Maria Oliveri
Storica, saggista e operatrice culturale
  • 1 marzo 2024

Il pasticcio di sostanza

Il pasticcio di sostanza – da non confondersi col pasticcio del Gattopardo - è una pietanza molto elaborata: un involucro di pasta briseè ripieno di vari tipi di carne, frattaglie e spezie.

Si tratta di una di quelle complicate ricette della cucina ottocentesca, che dopo aver goduto di grande fama e successo per un certo periodo di tempo, è finita poi per scomparire nell’oblio. I motivi sono numerosi: il più evidente è che i gusti si modificano, i nostri figli mangiano in modo molto diverso da come si nutrivano nostri nonni.

Un’altra ragione – ormai sotto gli occhi di tutti - dello scomparire di certe ricette, è da ricercare nei tempi di cottura troppo lunghi e nei numerosi passaggi, che aumentano la difficoltà della preparazione: siamo abituati ormai ai surgelati, ai sughi in barattolo, all’insalata già lavata, tagliata e confezionata nella busta di plastica, ai piatti pronti della grande distribuzione da scongelare al microonde o cuocere in padella, o addirittura alla consegna del cibo a domicilio…siamo troppo pigri spesso per cimentarci in cucina con piatti complicati.
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Un ulteriore motivo è che alcune ricette tradizionali non sono più apprezzate dal nostro palato, perché, diversamente dai nostri antenati non riusciamo più a consumare ingredienti come trippa, fegatelli, creste di gallo, zampe di gallina, lingua di bue, mammelle di mucca, ecc.; ma se i vostri commensali apprezzano l’autentica cucina siciliana di una volta, li sorprenderete proponendo questa ricetta, per riscoprire antichi sapori.

Il pasticcio di sostanza era una pietanza che veniva preparata in modo impeccabile dal cuoco di palazzo, il monsù (deformazione del francese monsieur) e che veniva consumata solo sulla tavola delle famiglie signorili. Infinite erano le varianti e ogni casa aristocratica aveva ovviamente la sua versione del pasticcio di sostanza e tramandava, solo a una cerchia ristretta della parentela, la lista degli ingredienti segreti.

In un registro contabile del 1811 del ricco monastero basiliano del Santissimo Salvatore di Palermo si legge che il pasticcio di sostanza, servito alle monache, veniva preparato come un involucro di pasta tenera, impastata con lo strutto e poi farcito con pollo, midollo, lingua, ficatelli e ova nonnate (non depositate), cannella e zucchero.

In tempi più recenti, "pasticcini di sostanza" erano detti i voulevant con un ripieno di carne e spezie che venivano preparati negli anni '50 e '60 del secolo scorso, per “trattamenti”: rinfreschi in occasione di battesimi, cresime, lauree, matrimoni… .

Proviamo a rileggere la ricetta del pasticcio di sostanza del cuoco Nicolicchia, Monsù di Casa Denti di Piraino, pubblicata proprio da Alberto Denti di Piraino (1888-1968) medico, funzionario e «scrittore finissimo e stravagante», nell’ormai introvabile volume postumo "Siciliani a tavola" del 1970.

Nicolicchia aveva scritto su un quadernetto alcune ricette, probabilmente le sue specialità: braciolone aggrassato, trippa all’olivetana, gattò dolce o piccante, susu (gelatina di testina e piedini di maiale), farsumagru, pasta con le sarde e appunto pasticcio di sostanza. Si legge nelle prime pagine del libro: "Stile e grafia sono del tardo Ottocento e pesi e misure espressi sovente non in base al sistema metrico decimale ma a quello in vigore nel Reame e cui abbiamo dedotto i controvalori dal Manuale di metrologia di Angelo Martini".

Ecco la ricetta del Pasticcio di sostanza del cuoco Nicolicchia: "Spezzato il pollame e messo nella casseruola, si soffrigge con un tantino di cipolletta e gli si tira un po’ di sugo con pomodoro pochissimo e, se non è il tempo, un po’ di estratto.

Ben cotto e quasi interamente consumato il sugo, si estragga il pollame e si spolpi attentamente, indi a suolo a suolo si metterà nella pasta tenera che sarà preparata nella tiella (teglia).

Fatto ciò, spargi in ogni suolo uova nonnate (sono quelle che si trovano nelle regaglie delle galline) - N.d.r. uova in formazione, che la gallina non ha fatto in tempo a deporre prima di essere macellata.

Le più grandi hanno la forma di un tuorlo, di un arancione acceso, le più piccole sono piccolissime e gialle -, pezzettini di midollo e midollini (animelle e filone), fegatini, e tutto l’entragnosi (regaglie) della gallina e anche pezzetti di vaccina cotta al ragù e tagliata in minutissimi pezzi. Ogni suolo parimenti si spruzzerà con pochissimo zucchero, cannella, garofani, spezie e un pizzico di sale.

Come i suoli saranno compiuti e vi è pochissimo sugo, si metterà una salsa di pomodoro senza olio con solo zucchero. Indi si metterà il coperchio di pasta tenera, che sarà sempre più grossa della pasta di sotto.

Come sarà tutto coperto, s’ungerà torno torno con un rosso d’uovo e si passerà al forno molto caldo da pane, per mezz’ora circa.” Denti di Piraino commenta così: “l’appassionata di cucina nobile ottocentesca, trova qui una ricetta non eccessivamente complicata e di grande interesse.

La pasta tenera di cui parla l’autore è quasi certamente pasta brisèe: la frolla dolce era riservata allora al pasticcio di maccheroni. Si noti la mancanza di ricorso alla bèchamel o alla panna, di cui oggi non sapremmo fare a meno.

"Per chi pensa invece che la ricetta del cuoco Nicolicchia sia troppo complicata, ecco anche la ricetta rivisitata da Pino Correnti ne "Il libro d’oro della cucina e dei vini di Sicilia" (1976).

"1,200 kg di pasta da pane 300 g di polpa di vitello 250 g di polpa di maiale 50 g di cipolle 80 g di mandorle tostate tritate 2 chiare d’uovo 50 g di cioccolata amara 35 g zucchero Saimi (strutto) 1 rosso d’uovo olio d’oliva, sale, pepe.

Passare alla mezzaluna un soffritto di polpa di vitello e di maiale, ottenuto in tegame con olio e strutto, insaporito dalla cipolla a fettine, cioccolata amara, mandorle sgusciate, tostate e tritate, zucchero, sale e pepe: il tutto ben amalgamato con due chiare d’uovo sbattute. Così la farcia è pronta.

Lavorare la pasta di pane con un po’ di strutto, poi quando sarà lievitata se ne ricaveranno due dischi della grandezza della teglia ben umettata di strutto.

Adagiare il primo disco nella teglia, umettare la pasta con poco strutto, e stendere la farcia fino a due centimetri dal bordo. Ricoprire un altro disco di pasta e far combaciare i bordi con la pressione della dita; bucare in più punti con la forchetta per creare degli sfiatatoi ed infornare. Quando la pasta avrà preso colore, umettare la faccia con un po’ di strutto e un rosso d’uovo: diventerà dorata.
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