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Quei tesori segreti dell'Etna: la grotta (che non c'è più) della femmina e del calzolaio

A proposito di "truvature" siciliane, vi raccontiamo una leggenda ambientata in una delle tantissime caverne che si trovano nel versante occidentale dell’Etna

Livio Grasso
Archeologo
  • 21 agosto 2022

Un cratere al Parco ell'Etna

Quasi certamente, la parola “truvatura” non suonerà estranea alle orecchie di buona parte dei siciliani.

Tuttavia, per chi non ne fosse a conoscenza o non ne sapesse il significato, il termine in questione allude al ritrovamento di un tesoro nascosto che solitamente veniva collocato in un ripostiglio ritenuto sicuro e, soprattutto, al riparo dalle minacce dei predoni.

Inoltre, prestando fede a svariate narrazioni mitiche, i fatidici tesori erano protetti e sorvegliati da folletti, demoni o giganti.

A tal proposito, basti pensare ai numerosi aneddoti leggendari che sono stati ampiamente trattati nei film d’avventura, nelle fiabe o nei cartoni animati.

Ebbene, che ci crediate o meno, anche la nostra splendida Sicilia rientra nel novero delle terre cariche di mistero e magia. A confermarlo sarebbero numerosi racconti popolari che prediligono come oggetto d’argomento proprio le famose truvature.

Tanto per fare un esempio calzante di quanto appena premesso, potrebbe suscitare una qualche curiosità parlare di una leggenda ambientata in una delle tantissime “caverne” che si trovano nel versante occidentale dell’Etna.
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Stiamo facendo riferimento alla così chiamata “Grotta della femmina e del calzolaio”.

Secondo antiche testimonianze, un gruppo numeroso di briganti nascose nel fondo dell’antro roccioso diversi bottini. Oltre a ciò si vocifera che, per scongiurare il pericolo di un eventuale furto, ciascuno dei banditi pose a tutela delle proprie ricchezze una donna e un calzolaio.

Di lì a poco, però, i fuorilegge furono catturati dalle guardie e condotti in prigione. La donna e il calzolaio, vedendo che nessuno di loro faceva ritorno, iniziarono a covare qualche sospetto. Per di più, rinchiusi dentro quella spelonca non potevano nemmeno uscire da lì senza che qualcuno liberasse il passaggio.

Perciò, fidando nella buona sorte, attesero in preda all’angoscia il rientro di quei banditi. Ciononostante, i giorni passavano e nessuno si faceva vivo; in più, dato che erano senza provviste, i due cominciarono a manifestare i primi segni di cedimento fisico e psichico.

A distanza di poco tempo, il digiuno prolungato li destinò a una morte logorante.

Un’altra versione, invece, sostiene che entrambi si trasformarono misteriosamente in due pircanti: nella tradizione mitologica, questi ultimi non sarebbero altro che degli gnomi preposti alla custodia dei tesori.

Tornando alla vicenda, si narra pure che molti anni dopo passò da quelle parti un pastore intento ad accompagnare il gregge al pascolo. Girovagando intorno alla fitta vegetazione boschiva, il mandriano scorse un anello dorato sulla parte sommitale di una grande pietra; divorato dalla curiosità, si diresse speditamente verso il masso e raccolse il prezioso gioiello da terra.

Mentre stazionava in quel punto, vicino ai suoi piedi, si accorse di una profonda fenditura dentro la quale si intravedevano denari, monili e gemme dorate.

Dunque, accecato dalla bramosia di impossessarsene, si fiondò laggiù riempiendo lestamente le proprie bisacce. Felice di essersi imbattuto in una simile fortuna il suo entusiasmo fu bruscamente stroncato da una poderosa voce femminile che, con tono intimidatorio, proferì: «Viddanu, viddanu, accì ti nni vai e ti porti li dinari?».

Il pecoraio trabalzò per lo spavento e scappò a piè rapido, abbandonando sul posto anche le sacche; nel bel mezzo della concitazione perse pure l’anello.

Stranamente, per quanto possa sembrare inverosimile, si dice che a partire da quel momento la grotta non fu mai più ritrovata.
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