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Scampò al massacro di Cefalonia: Giorgio Lo Iacono e il monumento ai caduti del Giardino Inglese

Dopo aver letto questa storia, guarderete quel piccolo monumento posto dentro l’aiuola di quel giardino storico di Palermo oggi in abbandono e degrado, con occhi diversi, quelli di chi sa cosa accadde

Danilo Maniscalco
Architetto, artista e attivista, storico dell'arte
  • 16 settembre 2021

Il monumento ai caduti del Giardino Inglese e Giorgio Lo Iacono (foto gentilmente concessa dagli eredi)

«Cefalonia è ricca di cipressi… alla fine della strage sembravano mille candele spente verso il cielo, una preghiera muta.»
Sono le parole che l'ingegnere Giorgio Lo Iacono (Piana degli Albanesi 1922 – Palermo 2014) consegna a testimonianza del piccolo monumento commemorativo da lui progettato nel 1977 all'interno del Giardino Inglese di Palermo, nel ricordo del terribile eccidio nazista che colpì la totalità della Divisione Acqui di stanza nell'isola greca di Cefalonia in seguito all’armistizio dell'Otto settembre 1943.

Fortemente voluto dalla Associazione Nazionale famiglie caduti superstiti e reduci Divisione Acqui -sezione Sicilia- in quel difficile periodo di passaggio che prese il nome di “Anni di piombo”, non è affatto un caso che il progetto venisse affidato proprio a Lo Iacono, laureatosi in ingegneria a Padova nell'immediato dopoguerra e tornato subito nella sua Sicilia tanto sognata in quei terribili anni di prigionia nei campi tedeschi e russi, seguiti alla barbarie gratuita del massacro della Acqui per diretto volere di Adolf Hitler.
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Giorgio era lì, tra Argostoli e Sami e fu tra i pochi soldati italiani (tra i pochissimi siciliani) a scampare al massacro per poterlo successivamente raccontare in un libro scritto insieme alla figlia Margherita soltanto sessant'anni dopo (G. Lo Iacono, Caro Renato…, Palermo 2006, pp. 128).

Nei suoi ricordi vividi, in quel solco scavato in cui la microstoria dei singoli uomini tocca la macrostoria dell'uomo, entrano nel cuore degli avvenimenti i dettagli di giorni assurdi e sanguinosi, eroicamente combattuti dai soldati italiani del Generale Antonio Gandìn nell’assoluta mancanza di ordini e di aiuti da parte del dissolto comando centrale italiano, abbandonati al centro dell’Egeo senza coperture aereonavali, davanti la “soperchiante potenza” tecnologica dei mezzi cingolati e degli Stukas nazisti.

Il rumore assordante delle sirene dei temibili bombardieri di picchiata, Giorgio non poté mai dimenticarlo; lui inviato sulla Cima Telegraphos insieme alla strumentazione necessaria per coordinare il puntamento dei pezzi italiani sul porto e con pochi uomini, si affida al suo San Giorgio carissimo alla comunità Arberëshë, quando la livrea argentata dello Stukas punta dritto sulla sua postazione mancandolo di un soffio soltanto “è la mia, mi distruggerà senza che me ne accorga e così porrà fine al mio tormento” racconterà nei decenni successivi.

Vista la situazione generale, soldati e ufficiali italiani avrebbero potuto tranquillamente cedere all'ultimatum tedesco del 14 settembre imposto dal sanguinario colonnello Hans Barge, consegnare le armi per aver salva la vita, ma decidono invece di combattere divenendo di fatto il primo atto della Resistenza italiana, condizione sancita soltanto nel 2001 dalle parole e dalla volontà diretta di rendere giustizia di Carlo Azzeglio Ciampi.

Una settimana di passione quella che il giovanissimo siciliano combatté insieme ai suoi compagni, culminata soltanto al volgere del 22 settembre quando le truppe di montagna tedesche scavalcano tagliando in due le forze italiane stremate e senza più munizioni né viveri né tanto meno ordini, né ancora alcun tipo di aiuto da parte della madre patria.

La storia che segue ci consegna un quadro agghiacciante che è assolutamente impossibile delineare oggi a parole, che trova la rabbia di Hitler scatenarsi sulle truppe italiane in assoluto disprezzo ad ogni forma di umanità esprimersi all'ombra della cosiddetta “Casetta rossa” dove vengono fucilati senza alcun tipo di processo in sfregio alla convenzione di Ginevra ufficiali e soldati arresi, compreso il Generale di Divisione Gandìn.

Per giorni va avanti il massacro, terra e acqua diventano rosso sangue, umanità, storie e carne ammazzata vengono bruciate su alte pire o seppellite in fosse comuni o altrimenti gettati a mare. Al massacro su terra seguirà l’affondamento di alcune navi da trasporto prigionieri che porterà il numero dei caduti tra 4000 e 9000 unità, una tragedia immane nella tragedia della guerra totale.

Giorgio è lì, vive quelle ore tremende affidando la sua anima alle preghiere e persino davanti l'apparente morte di Dio, trova il tempo per salvare altre vite a rischio ulteriore della sua; salva il capitano Angelo Longoni di Milano facendogli indossare la divisa di fante e quando il massacro finisce lasciando per terra migliaia di italiani ammazzati, lui e Longoni sono salvi.

Rimangono internati lì fino ad ottobre e poi il lungo esodo che dal porto del Pireo, attraverso Atene occupata e ormai nazista divide i loro destini per i due anni seguenti. Giorgio stanco, affamato, preoccupato dal non poter più comunicare con la madre e le sorelle a casa, viene internato a Minsk dopo l’attraversamento devastante dei Balcani, della Bulgaria e della Bessarabia; è ormai uno dei 600.000 I.M.I. (internati militari italiani) che non aderiscono alla Repubblica Sociale di Salò segnando il proprio destino con due lunghissimi anni di stenti, sofferenze, silenzi e malattie.

Si salva soltanto facendo ogni tipo di lavoro, e durante l’accerchiamento di Minsk riesce a fuggire in una delle marce della morte sulla neve, si unisce ai partigiani russi per finire successivamente in uno stalag russo fino alla fine della guerra, quando un po' alla maniera di Primo Levi fa ritorno a casa alla fine dell'autunno del 1945.

Il 7 dicembre è infatti a Palermo e in poche ore riabbraccia la madre che da due anni non aveva più alcun tipo di notizia sulla sua sorte. In un viaggio che sembra quello presente in migliaia dei diari di guerra di prigionieri italiani superstiti, Giorgio oltrepassa il Kazakistan, attraversa la Germania completamente devastata in macerie fumanti e spettri che camminano affamati e confusi, prima a Francoforte e poi a Monaco supera il Brennero in un treno della Croce rossa e da Pescantina giunge finalmente in Sicilia, dove la guerra è finita qualche settimana prima del massacro di Cefalonia.

Il suo mondo non esiste più, come non esiste più la Divisione dei “resistenti” della Acqui. Passeranno però decenni prima che almeno la storia ufficiale consacri al valore dei martiri per la patria il sacrifico di quei giorni settembrini in terra greca.

Ecco che allora quel piccolo monumento posto dentro l’aiuola di quel giardino oggi seppur in abbandono e degrado, diventa qualcosa di più di un muro rivestito di pietra con una lapide commemorativa.

Esso ci parla di Giorgio e attraverso i suoi occhi ed il suo cuore riesce a trasmettere la storia di undicimila soldati che, abbandonati e senza ordini, si fecero argine contro la barbarie nera uncinata per diventare, quando ancora servisse ricordarlo, la prima testa di ponte ideale della resistenza italiana in quella parentesi di guerra civile 1943-45.

La storia dei ragazzi della Acqui sembra quasi la riproposizione delle Termopili dei soldati di Leonida, in cui il sacrificio dei giusti scolpisce nella pietra il valore universale della causa contro ogni forma di barbarie.
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