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Se non eri arbëresh potevi entrare solo una volta l'anno: storia di una comunità "incontaminata"

A pochi passi da Palermo, Piana degli Albanesi è una comunità ben radicata e con una storia affascinante. Pasolini definì quello degli arbëreshë un miracolo antropologico

  • 16 giugno 2021

Illustrazione di Piana degli Albanesi del 1892

Sono passati ben 533 anni dalla fondazione della comunità arbëreshe di Piana degli Albanesi. La data riportata dai Capitoli di Fondazione è quella del 30 agosto 1488. Lo stesso Pieropaolo Pasolini, durante un convegno tenuto a Lecce nell'ottobre del 1975 sul rapporto tra scuole e minoranze linguistiche, definì quello degli arbëreshë un miracolo antropologico per avere mantenuto, per più di mezzo millennio, le proprie specificità identitarie, la lingua e il rito greco in primis.

Gli esuli albanesi in fuga dai Balcani a causa dell'avanzata dell'Impero Ottomano, giunsero in Sicilia nei territori appartenenti all'Arcivescovo di Monreale. Perciò gli arbëreshë dovettero trattare con il Mons. Nicolao Trulenchi, Governatore dell’Arcivescovato e Procuratore Generale del Card. D. Giovanni Borgia, per ottenere la concessione dei feudi, il cui atto definitivo, che comprende anche i Capitoli di Fondazione del nuovo Comune, venne stipulato dal notaio Nicolò Altavilla ed approvato dalle parti il 30 agosto 1488 a Monreale.
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Gli arbëreshë che intervennero in quell'atto furono: Giovanni Barbato, Pietro Bua, Giorgio Golemi, Giovanni Schirò, Giovanni Macaluso, Tommaso Jani, Antonio Troja, Matteo Mazza, Teodoro Dragotta, Giorgio Burlesci, Giovanni Parrino, Giorgio Ipsari, Giovanni Canniti e Giorgio Bruscari.

Agli albanesi di Sicilia furono affidati vasti feudi secondo particolari e private concessioni e, solo in un secondo momento, quando ogni previsione di ritorno divenne improbabile, si pensò di stabilizzare la loro presenza nell’isola mediante la sottoscrizione di 16 Capitoli di Fondazione.

Riassumendo, agli albanesi veniva concesso il privilegio di vivere secondo le leggi e le consuetudini vigenti nella città di Monreale: l'Arcivescovo concedeva 15 salme di terra a scopo seminativo e ulteriori 800 affinché gli arbëreshë potessero costruire le loro dimore; potersi muovere liberamente con le armi e abbandonare il posto concesso loro senza alcuna penalità. Potevano, inoltre, esercitare la caccia e mantenere il proprio culto che si basava sul rito greco; macinare il grano nei mulini (Jato e Malvello) della Diocesi di Monreale, poiché non potevano costruirsene uno senza il permesso dell’Arcivescovo.

Nel caso, al termine di tre anni, non avessero provveduto né a costruire le loro case, né a coltivare i terreni, gli arbëreshë erano obbligati ad abbandonare i feudi concessi.

Quella degli Albanesi d'Italia, è una grande storia di integrazione, poiché hanno dimostrato che il dialogo, lo scambio culturale e la pacifica convivenza di popoli diversi è possibile. Tuttavia, vi fu un periodo in cui gli albanesi fondatori di Piana non vollero, da subito, rischiare che la loro cultura fosse "contaminata" da quella isolana e nei primissimi anni della fondazione della loro colonia (1488), negarono l'accesso alle persone provenienti dagli altri centri limitrofi.

Gli arbëreshë non fanno altro che accentuare la loro differenza rispetto alle altre comunità siciliane perché utilizzano simboli e rituali diversi, ma soprattutto la lingua che è l'elemento che emerge con maggiore immediatezza. Esclusivamente una volta l'anno, durante i cinque giorni dei festeggiamenti in onore della Vergine, gli arbëreshë consentivano l'accesso ai siciliani.

Solo la necessità di manodopera aprì una breccia in quella autarchia culturale, e si permise ad alcune famiglie di trasferirsi a Piana con l’obbligo, però, di imparare la lingua e di adottare i costumi e il rito religioso.

In un primo momento, dunque, ciò che consentì agli arbëreshë di mantenere i propri usi culturali è stata una sorta di chiusura nei confronti dell’altro. Il rapporto con l’alterità, rappresentata dalla cultura siciliana, diviene indispensabile soltanto nel momento in cui è indispensabile aprirsi perché vi è necessità di manodopera.

Quindi, l'identità collettiva ha consentito il delinearsi dei confini del gruppo arbëresh, ossia di identificarlo e distinguerlo dalle altre comunità in suolo siciliano e di costruire un presente radicato in un passato da cui attingere il futuro. Quindi, la vera sfida degli arbëreshë, oggi, è quella di mantenersi tali privilegiando il dialogo, lo scambio culturale e il rispetto verso le culture altre.
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