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Se te ne approfitti sei un "caravigghiaro": le origini di una delle parole più usate in Sicilia

Spiegare chi è il "caravigghiaro" senza trattare qualche elemento di economia, sarebbe sicuramente più semplice ma al tempo stesso incompleto. Come nasce

Gianluca Tantillo
Appassionato di etnografia e storia
  • 11 gennaio 2024

Sono già passati trent’anni da quando nonna mi portava a fare la spesa con lei. Ricordo, era una tragedia. Chi ha vissuto in periferia lo sa, sotto casa si trovava grossomodo di tutto e per fortuna di buona qualità e anche a buon prezzo.

Nonna però non la pensava così. Era una donna tutta d’un pezzo, non teneva alcun deficit, aveva due mani come tutti, solo che una era per ritirare la pensione e l’altra per contarsi i piccioli.

Il copione era sempre lo stesso: si entrava in una qualche bottega - solitamente di genere alimentari - avvistava il prodotto/obiettivo, compiva una manovra di avvicinamento, gli faceva la risonanza magnetica con lo sguardo, infine dopo averne ingurgitato mezzo chilo aggratis per vedere com’era e averne palpato un altro chilo e mezzo per tastarne la consistenza, ne chiedeva il prezzo.

«Questa viene a mille lire a chilo». «Quantuuuu?!».

Già, nonna se ne fotteva altamente delle teorie economiche, della legge della domanda e dell’offerta, della legge della mano invisibile di Smith che regola i mercati e del Pil: per lei erano tutti caravigghiari.
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Solamente nonno ogni tanto parlava di queste cose, specialmente quando, nel servire la pasta, a nonna le cadeva involontariamente un capello dentro il suo piatto.

«U PIL è bello,» mi diceva, «ma no ‘nta pasta…».

Comunque, se nelle enciclopedie scientifiche la cellula "nasce, cresce, si riproduce e muore", in quella personalissima di nonna il bottegaio "nasceva, cresceva, diventava caravigghiaro e fotteva"… così, per natura.

Spiegare chi è il caravigghiaro senza trattare qualche elemento di economia, sarebbe sicuramente più semplice ma al tempo stesso incompleto. In economia infatti la formula che definisce il profitto è la seguente: (G=R-C), dove "G" sta per profitto, "R" sta per ricavo, "C" non sta per caravigghiaro ma per costo.

Quindi il profitto è sostanzialmente il ricavo meno il costo: in parole povere, i piccioli che mi consegna il cliente in mano a cui tolgo le spese che ci ho messo io di tasca mia.

Quando questo è nella norma tutto a posto a Ferragosto, quando invece da "profitto" diventa "approfitto", e tra "R" e "C" ci sta troppa differenza, molto presumibilmente ci troviamo di fronte un caravigghiaro che ce la sta mettendo nel frac.

Il caravigghiaro è in buona sostanza il venditore che a tuo svantaggio ti impone il "paghi 3 e prendi 1".

Rintracciare l’origine di questa parola non è cosa facile, anche perché ci sono diverse versioni.

Tuttavia, siccome non siamo all’Università di Harvard, né tantomeno all’Università dell'Oaglio, le raccontiamo e ognuno si sceglie la sua perché ogni testa è tribunale e va bene così.

Secondo una versione tardoromantica, la parola caravvigghiaru proviene dal fatto che già nel Medioevo era usanza dei venditori ambulanti sostare di fronte ai "caravanserragli".

Non vi scantate di ‘sta potente parola perché si trattava semplicemente di un "funnacu" (fondaco), ovvero un luogo dove per concessione o per pochi spiccioli, viaggiatori e forestieri potevano lasciare trolley, merci, cavalli, scecchi o addirittura dormirci.

Altri, un po' più puristi, pensano invece che si tratti semplicemente di una parola composta: caro + vigghiaru, cioè "colui che veglia", perché chi ama fottere non ci dorme la notte per trovare il modo di fotterti.

Molto più con i piedi per terra, almeno secondo me, è la versione che vede provenire la parola "caravigghiaru" direttamente dal modo di dire latino “caro vilia vendens”.

Di prima impressione pare significare ciò che si legge: "Vendere caro", eppure, questo simpatico modo di dire dell’antica Roma, significava in realtà l’opposto: "vendere carne a buon mercato".

Ora, giustamente può arrivare qualcuno e dice: «ma scusa, e dove sta la fottuta se la carne è a buon mercato?».

Giustissima osservazione. Da un lato potrebbe derivare dal fatto che noi siciliani, con tutta la nostra filosofia, la fottuta autolesionista ce l’andiamo proprio a cercare; tant’è che abbiamo modi di dire come per esempio: “o’ caru accattacci, o’ miccatu pensaci”…

Quante volte avete sentito dire: "no, io quando compro una cosa, o buona o niente"…ma v’arrìffati! In secondo luogo, per la serie vinisti pi futtiri e fusti futtutu, è vero anche che con la bocca abbiamo avuto l’abitudine di pappariàrci, e poi nei fatti siamo sempre stati dominati da quant’è che galleggiamo nel Mediterraneo.

Comunque, perché la parola caravigghiaru è associata al rovesciamento di questo modo di dire latino, ma soprattutto al venditore di carne (perché caravigghiaru comu i cainnizzieri un c’è nuddu)?

Questo ce lo racconta Sesto Pompeo Festo, uno scrittore e grammatico romano, che, a quanto pare, ogni tanto qualche passiata al mercato se l’andava a fare pure lui.

Ebbene, secondo Festo, proprio la parola macellum proviene da un tal signore chiamato Macello, che, lo facciamo dire direttamente a lui, «esercitava latrocinii dentro Roma, il quale dopo essere stato condannato ai tempi de’ censori Emilio e Fulvio, cioè l’anno di Roma 573, questi stabilirono, che nel sito della sua casa si vendessero vivande».

Io non lo so se questa versione è vera o no, come morì Macello e in quale camposanto fu sepolto. Quello che mi piace pensare è che qualcuno, un giorno, si alzerà in Vaticano e deciderà di nominare Macello, il santo protettore dei Caravigghiari.

Dal bancone della carne sotto casa è tutto, 10 euro 4 cotolette, a voi la linea!
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