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Siciliano mon amour: tascio, mappina & Co, le nostre parole che piacciono fuori dall'Isola

Tanto care ai siciliani e in voga nell’uso comune, quanto assolutamente intraducibili al mondo intero. La classica “parlata siciliana” è insostituibile nella vita di tutti i giorni

  • 23 dicembre 2019

Ficarra e Picone in una scena tratta da "Nati Stanchi"

Scendi il cane, tascio, mi siddia, arripigghiati, s’aggigghia e mappina: sono tutte espressioni siciliane incomprensibili al di fuori dei confini dell’isola ma che spesso piacciono a chi viene in contatto con i nostri modi di dire.

Tanto care ai siciliani e quotidianamente in voga nell’uso comune, quanto assolutamente intraducibili al mondo intero. La classica “parlata siciliana” conserva infatti delle parole e dei modi di dire che, per la loro valenza comunicativa e la loro incisività radicata, per noi siciliani sono diventate assolutamente insostituibili nella vita di tutti i giorni al punto che un concetto o un pensiero non potrebbe essere espresso meglio senza che siano usate quelle espressioni.

Chissà quante volte vi sarà capitato, fuori dalla Sicilia, di dire la parola “tascio” e di non essere capiti. Per intenderci, la parola “tascio” in siciliano è l’equivalente del “tamarro” in italiano, usata per indicare appunto una persona rozza, al pari del “burino” romano. "Mi siddia", poi, è proprio uno stile di vita del palermitano, al quale secca e scoccia fare tutto.
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E ancora: in ogni cucina delle nonne siciliane che si rispetti non troverete mai uno strofinaccio per asciugarvi le mani bagnate ma la “mappina”. E le poche volte che nella calda Sicilia calano le temperature e d’inverno fa davvero freddo si dice che fuori “s’aggigghia”.

Per non parlare poi del feroce uso transitivo di alcuni verbi, che fanno rabbrividire l’udito dei grammar-nazi, come ad esempio “scendi il cane”, “sali le chiavi”, “esci il latte dal frigo”, fino ad arrivare al must have per cui nei negozi palermitani, una volta arrivati alla cassa, la signorina dice “signora, un momento, mi pago il ragazzo e arrivo”.

Ma qui c’è poco da discutere perché l’Accademia della Crusca ha zittito il diverbio grammaticale tra nord e sud, dando ragione ai terron e sostenendo che l’uso transitivo di verbi come salire/scendere o entrare/uscire è una “sicilianata grammaticale” che va accettata perché secondo la Crusca "l'uso di questi verbi in forma transitiva sarebbe economicamente vantaggioso" (ne abbiamo parlato qui).

Insomma il siciliano, classificato tra i dialetti italiani meridionali estremi, è proprio una lingua a sé: a dirlo è anche l’Unesco secondo cui il siciliano è un idioma abbastanza distinto dall'italiano tipico tanto da poter essere considerato un idioma separato. L’Unesco infatti ha riconosciuto il siciliano come lingua regionale, che non deriva dall'italiano ma, al pari di questo, direttamente dal latino volgare (ne abbiamo parlato qui), riconoscendogli lo status di lingua madre, motivo per cui i siciliani sono descritti come bilingui, e lo classifica tra le lingue europee "vulnerabili”.

Il siciliano nelle sue varietà è correntemente parlato da circa 5 milioni di persone in Sicilia, oltre che da un numero imprecisato di persone emigrate o discendenti da emigrati delle aree geografiche dove il siciliano è madrelingua, in particolare quelle trasferitesi nel corso dei secoli passati negli USA, dove si è formato addirittura il Siculish: il fenomeno linguistico che ha creato un perfetto mix tra il siciliano e l’angloamericano, portando alla sicilianizzazione di parole e frasi della lingua inglese da parte di immigrati siciliani negli Stati Uniti d'America per necessità linguistiche o per ottenere un effetto umoristico (come ad esempio bissinissi da business, affari, o pulissman da policeman, poliziotto).
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