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Zeus ne rimase colpito e Garibaldi le mangiò a Palermo: l'arancia rossa tra mito e storia

In pochi sanno che dietro queste bontà nostrane si cela una storia ricca di leggende e aneddoti. Uno di questi riguarda proprio il "palazzo Pretorio" della città

Livio Grasso
Archeologo
  • 15 agosto 2022

Succosa e dal sapore squisito, l’arancia rossa rientra tra gli agrumi più diffusi e consumati di tutta la Sicilia. Le varietà di questa gustosa delizia sono molteplici: molto rinomate, a tal proposito, sono le "Sanguinello" , le "Tarocco" e le "Moro".

Tuttavia, in pochi sanno che dietro queste bontà nostrane si cela una storia ricca di aneddoti e leggende. Per chi non ne avesse mai sentito parlare, nella mitologia greca il nostro caro e amato frutto era così prezioso da godere di una protezione speciale.

Tutto ebbe inizio quando Era, sposa di Zeus, consegnò al marito alcuni alberelli dai ramoscelli dorati. Il re degli dei, almeno così si tramanda, ne rimase profondamente colpito e incantato da esporli nel sontuoso e rigoglioso "Giardino delle Esperidi".

Addirittura, per custodirli a dovere, ne affidò la sorveglianza alle ninfe dal dolce canto, note per l’appunto come Esperidi. Era, dal canto suo, pose a presidio del sacro luogo anche un grosso e potente drago.
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Ciò malgrado, ben presto il giardino venne violato ugualmente.

Infatti, secondo i racconti mitici, Eracle, in procinto di affrontare l’undicesima fatica, si spinse fin laggiù e affrontò il mostro alato. Dopo un’aspra e violenta lotta l’eroe greco riuscì a sconfiggerlo, ottenendo un grande trionfo.

A compimento dell’ardua impresa strappò i frutti d’oro dai rametti e li portò via con sé. Oltre a questa “storiella” ne esiste un’altra che merita altrettanta menzione e considerazione.

Il protagonista è il re di Spagna, presumibilmente Carlo V, che, sulla base di quanto tramandato, ricevette in dono proprio un piccolo albero d’arancio. Felice ed entusiasta, lo piantò nel suo giardino per goderne sia della vista che dell’inebriante profumo.

Un giorno, però, accadde che un ambasciatore vi si imbattesse per puro caso e ne rimanesse perdutamente ammaliato. Non potendo resistere alla sua bellezza, si recò al cospetto del re e chiese lui di donargli un solo ramoscello.

Ciononostante il sovrano, essendone molto geloso, declinò la sua richiesta e lo cacciò via bruscamente. Mal tollerando l’irriguardoso rifiuto, il messaggero fece un altro tentativo con il giardiniere del monarca, proponendogli cinquanta monete d’oro in cambio dell’agognato ramicello.

La proposta allettò subito l’ortolano, il quale non indugiò ad accettare l’offerta. Per il campagnolo fu un affare straordinario; difatti si narra che il lauto compenso fu da lui adoperato per la dote della figlia, prossima a sposarsi.

A tal riguardo si dice che il giorno del matrimonio la primogenita adornò i propri capelli con i fiori d’arancio, simbolo della sua fortuna. Non a caso, ancora oggi codesti fiori sono associati al rito del matrimonio.

Ad ogni modo, che ci crediate o meno, ulteriori testimonianze riportano un terzo "raccontino" che vale assolutamente la pena conoscere.

Tema centrale della vicenda è la conversazione avvenuta tra il generale borbonico Letizia, il colonnello borbonico Buonopane e il celebre Giuseppe Garibaldi.

Il colloquio si svolse presso il “Palazzo Pretorio” di Palermo nel lontano 1860. Come attestato dalle fonti, il condottiero italiano accolse i due capi della fazione nemica facendosi trovare seduto su una poltrona con un’arancia rossa in mano.

Durante la discussione offrì loro pure qualche spicchio. il caso volle, però, che tra un boccone e l’altro il dialogo venisse bruscamente interrotto dai colpi di una carica di moschetteria così assordante da far sobbalzare Buonopane e Letizia.

Garibaldi, in quel frangente, come se nulla fosse accaduto pronunciò tali parole: "fate che cessino". Dopodiché continuò a degustare la sua adorata arancia.
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