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Addio Andrea Di Marco, l'archeologo del presente

"Archeologo" di un presente sublimato, in un doppio figurativo più vero del vero, perché filtrato da sguardi, ricordi, nostalgie, quelle di Andrea e di tutti noi

  • 6 novembre 2012

L’articolo che non avrei mai voluto scrivere. È questa l’unica frase che mi viene in mente mentre mi appresto a parlare ancora una volta di uno dei maggiori talenti della scena artistica palermitana, Andrea Di Marco, pittore di straordinario talento che se ne è andato troppo presto, a soli 42 anni, lasciando tutti incapaci di accettare la drammatica realtà di questa perdita. Dico "ancora una volta" perché tante volte, in questi anni, ho avuto il privilegio di scrivere di lui, dei suoi dipinti dalle atmosfere silenti e dalla luminosità abbacinante, dei suoi dettagli di periferia urbana che, attraverso il tocco del pennello, egli riusciva a ridestare e a volgere a nuova vita.

Di quegli incontri, delle mostre e degli eventi nei quali ci siamo trovati a lavorare insieme, non si può non ricordare, oltre al suo valore come artista, la sua ironia, il sorriso, l’atteggiamento amicale, la profonda umanità ma anche il pragmatismo, l’onestà intellettuale, quella che lo guidava nella scelta dei suoi impegni, che lo faceva desistere da un progetto del quale non era convinto sino in fondo, il vivere il suo lavoro d’artista a trecentosessanta gradi, guardando alla città, al sistema, ai meccanismi del mercato con lucida consapevolezza ma senza farsene stritolare o senza lasciar prevalere il cinismo.

La sua sensibilità affiorava con prepotente poesia dal modo in cui interpretava gli scenari metropolitani, metonimiche evocazioni di vite vissute, luoghi dell’abbandono e del degrado urbano a cui egli restituiva un dignità estetica, fotografo, o come è stato definito "archeologo" di un presente sublimato attraverso la forza pregnante del suo gesto d’artista, di chi costruisce, tassello dopo tassello, un doppio figurativo a tratti più vero del vero, perché filtrato da uno sguardo, da sentimenti, ricordi, nostalgie tutte umane, quelle di Andrea stesso e di tutti noi.

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L’immagine fotografica, definita da lui il suo "braccio tecnologico", richiamando idealmente i vedutisti settecenteschi, che ricorrevano all’ausilio della camera ottica per rendere le coordinate spaziali delle scene raffigurate, rappresentava per Di Marco il mezzo per catturare e fermare dinanzi all’occhio fotogrammi della memoria, particolari di paesaggi, di oggetti, di momenti - una vacanza, una passeggiata tra le strade di Palermo - trasformati, sulla tela e nelle carte, in una pittura sempre più pittura, nella saturazione calda delle tinte sensualmente intrise di luce, nella materia grassa dell’olio, unico medium pittorico che Di Marco sentiva realmente suo.

In un’intervista di alcuni anni fa mi elogiava “l’autonomia intellettuale ed estetica, l’approccio spirituale” alla pittura, che lo guidavano nel suo lavoro e gli facevano giudicare con diffidenza tutte le etichette, da quella di esponente della cosiddetta "scuola di Palermo", al quale era stato associato insieme ai suoi compagni di strada e amici di sempre, Alessandro Bazan, Francesco De Grandi, Fulvio Di Piazza, protagonisti nel 1998, insieme a Di Marco, della mostra “Palermo Blues”, curata dal gallerista fiorentino Tossi ai Cantieri Culturali alla Zisa.

La Scuola di Palermo - racconta De Grandi in un testo del 2006 - è stata un’etichetta appiccicosa che ci è stata stretta da subito. Tossi, secondo me, ha centrato il problema quando ci ha paragonati a un gruppo blues, casualmente trovatosi a suonare assieme a una festa e, dopo i bagordi, ognuno nella sua branda a smaltire la sbornia. Baz è stato "l’attrattore" che ha convogliato prima la mia e poi le altre due anime in quel susseguirsi di storie, quadri, mostre, viaggi, risate e quant’altro. È stato quel periodo magico che dall’inizio degli anni Novanta si trascina fino ad oggi. In effetti, era stato il caso a fare incontrare Bazan e Di Marco in un’afosa giornata di luglio del ‘93 al bar Alba di Palermo; entrambi avevano frequentato l’Accademia di Urbino, ma a distanza d’alcuni anni l’uno dall’altro.

Insieme a Fulvio Di Piazza dal 1996 al 2000 avrebbero condiviso lo studio di via Gemmellaro, dove ancora Andrea lavorava, condividendolo spesso con Francesco De Grandi, e dove, sentendo l’intenso odore della vernice e aggirandosi in mezzo alle sue tele, si poteva assaporare appieno il gusto antico del fare pittura, pur riproposta con la sensibilità di un quarantenne di oggi, informato, consapevole dei suoi mezzi e via via sempre più maturo. Difendeva strenuamente la dignità e l’attualità del linguaggio pittorico, opponendosi a chi, a ripetizione, negli anni ne ha dichiato la morte, l’obsolescenza o la fatua inclinazione verso l’autoreferenzialità.

In quella già citata intervista Di Marco affermava, infatti: «Il fatto che si riscontri nei pittori (chi?) una minore attenzione sulle motivazioni profonde ecc..ecc.. mi sembra una lettura superficiale, faziosa e preoccupante. Ci sono cose dell’arte che a me sembrano stupide, banali e inutili, a te altre. E poi non esiste forse un’attenzione maniacale per la tecnica nell’Adolf Hitler di Cattelan o nei video di Matthew Barney? Dovremmo quantomeno superare questo dibattito ingenuo e astorico, l’ingannevole conflitto, insomma, che porta spesso ad una diffidenza odiosa nei confronti del mezzo pittorico, come se non esistesse al suo interno il momento raziocinante, ideologico, programmatico».

A dimostrazione del suo pensiero, oltre a partecipare con assiduità ai principali eventi artistici della città, di recente aveva manifestato un interesse attivo verso le problematiche reali di Palermo, ad esempio in relazione alle sorti degli spazi della cultura, come i Cantieri della Zisa e al dibattito nato attorno ad essi. Della sua città, infine, Andrea ha contribuito a fissare una serie di immagini, un’iconografia neorealista e insieme lirica che rimarrà nel cuore, negli occhi, nella mente di tutti.

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