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Un mostro che si chiama cinema: Bellocchio torna con un gran film

  • 27 aprile 2006

IL REGISTA DI MATRIMONI
Italia, Francia, 2006
Di: Marco Bellocchio
Con: Sergio Castellitto, Donatella Finocchiaro, Sami Frey, Gianni Cavina, Maurizio Donadoni, Bruno Cariello, Simona Nobili, Claudia Zanella, Corinne Castelli, Silvia Ajelli, Aurora Peres, Giacomo Guernieri, Enzo Baiocco, Carmelo Galati

Un Osanna intonato da una piccola folla che assiste, in chiesa, ad una cerimonia di matrimonio: l’incipit del nuovo film di Marco Bellocchio si ricollega idealmente al suo terzultimo capolavoro sulla tentazione della santità, quel "L’ora di religione" che già aveva sorpreso e turbato per intensità ed ispirazione. Intendiamoci, da buon laico radicalmente ateo, il Bellocchio de "Il regista di matrimoni" intende celebrare soprattutto la mistica del cinema che, a sua volta, sembra ancora destinata ad evocare la rimanente spiritualità delle cose e della presenza umana. Ancora una volta, l’autore di "Buongiorno, notte" e di altre memorabili opere di culto (di generazione in generazione, fin dai tempi del clamoroso esordio con "I pugni in tasca"), si fa portatore di una idea di cinema alto, progressivo e, forse, progressista; di un cinema puro che, per la sua complessità e il suo coraggio, gioca a colpire al cuore il proprio pubblico sempre “in nome della bellezza, della poesia, della purezza, dell'energia sporca e vitale del desiderio” (quest’ultima notazione appartiene alla brava Marina Fabbri nel suo bello e utile servizio realizzato sul film in questione per RaiSat Cinema-World).

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Bellocchio decide di tentare un altro suo personalissimo discorso intorno alla realtà contemporanea, invasa da una medietà annichilente e dominata da una tecnologia debordante e distraente, raccontando, nel modo più magico possibile, storie che hanno come sfondo le zone-limite e marginali del nostro Paese. Questa volta lo scenario è una Sicilia fuori dal tempo, una Sicilia cupa e mutevole che ha i colori del mare in inverno. L’immagine di una spiaggia dove una giovane coppia di sposi prima si insegue e poi amoreggia: è questa l’importante sequenza che segna l’arrivo nell’isola del personaggio protagonista, il regista in crisi creativa Franco Elica (un Sergio Castellitto che ancora una volta con Bellocchio raggiunge un vero e proprio stato di grazia), letteralmente fuggito dal progetto di una moderna trasposizione cinematografica de "I Promessi Sposi" e ossessionato dalle sequenze di quella di Camerini, datata 1941, che continuamente gli appaiono e ci appaiono (come tracce di un cinema che non si può o non si deve più fare?). A distoglierlo dai suoi malesseri creativi ci pensa un registucolo locale, suo ammiratore, specializzato in riprese di matrimoni (e che ha il volto di Enzo Baiocco).

Il povero Elica è così costretto ad affrontare un intrigo amoroso da feuilletton ottocentesco (o da pellicola alla Matarazzo se preferite): c’è il principe Ferdinando Gravina di Palagonia (discendente dell’estroso aristocratico della Villa dei Mostri a Bagheria mostrata nel film, interpretato da un attore di Godard in "Bande à part" e de "La verità" di Clouzot, l’intenso Sami Frey); e c’è la figlia di questi, Bona (una bellissima ed efficace Donatella Finocchiaro, qui alla sua prova migliore dopo "Angela" di Roberta Torre), che tristemente si avvia ad uno sposalizio forzato con un avvocato vedovo, e questo per riscattare i debiti familiari (il nobile padre ha infatti il rovinoso vizio del gioco). Ad Elica, a cui spetta il ruolo di una specie di Innominato in questa rappresentazione un po’ grottesca che ironicamente cita il capolavoro manzoniano, il principe si rivolge per realizzare un documento filmato quanto più è possibile “artistico” del matrimonio “che s’ha da fare”.

La commedia sconfina nel melò anni cinquanta quando il protagonista si innamora della bruna Bona. Bellocchio è però assai abile nel depistarci continuamente, inserendo a sorpresa nel suo maturo e consapevole gioco cinematografico letterali citazioni di Godard (“il cinema è montaggio!”) insieme a scene dedicate ad altri maestri dimenticati, non disdegnando pure qualche frecciata polemica contro l’attuale prevalenza di immagini superflue in questo nostro mondo informatizzato e schiavizzato dai media. E’ palese quanto il buon Marco si identifichi nel suo Elica, almeno per quel che concerne la voglia di fuga che travolge il personaggio fin dall’inizio, vittima di una crisi di identità (molto alla Bergman) e per la quale egli abbandona la funzione del matrimonio della figlia schivando anche un torbido caso giudiziario. Ben presto si comprende la scelta di evocare come libro-simbolo quello de "I Promessi Sposi", insinuante allusione alla fascinosa archeologia industriale di quella democristiana Italia del Palazzo con la quale Bellocchio ha duellato per gran parte della propria carriera e di cui ha poi descritto il tramonto, riflesso nei volti dei terroristi e della vittima sacrificale nel suo film sul caso Moro.

“Sono i morti che comandano” è la frase emblematica che sembra attraversare la sottile trama da romanzo psicologico de "Il regista di matrimoni", come pure l’aspra follia dei suoi personaggi. Fra questi ricordiamo lo "Smamma" del bravissimo Gianni Cavina, altra figura di regista che, per vincere il suo David di “Michelangelo” (l’affettuosa allusione è ad Antonioni), si spaccia pirandellianamente per morto e in un memorabile monologo si scaglia contro l’Italietta in crisi a destra come a sinistra che celebra burocraticamente lutti a ripetizione trascurando la forza dei vivi. Interrogandosi sulla necessità di dare corpo ai buoni rimanenti fantasmi dell’utopia, Bellocchio ci regala un mosaico enigmatico e vitale pieno di sfumature intellettuali però sciolte in una fluidità degna di un Kieślowski, dove è teneramente presente la dimensione del sogno e della bellezza, tracce persistenti di una speranza dura a morire. Supportato da un montaggio efficacissimo (di Francesca Calvelli) e da una magnifica colonna sonora (brani di repertorio e originali composizioni dissonanti a cura di Riccardo Giagni), "Il regista di matrimoni" è un film esemplare ed affascinante che sa valorizzare la componente metafisica e metaforica di un paesaggio siciliano visto come labirinto ammaliante.

Si veda la sequenza della spiaggia notturna, regno incontrastato dell’immaginario derivato dalle opere di Fellini e di Ferreri, dove alcune ragazze vestite di bianco celebrano ritualmente l’originale elegia di Bellocchio (che recupera così il modello del suo cinema psicoanaliticamente motivato) interamente tesa ad ammonirci sul rischio della scomparsa delle immagini. La metamorfosi che muta i colori della pellicola in un bianco e nero elettronico (sgranato come se alcuni passaggi fossero ripresi da una telecamera a circuito chiuso) richiamano la catastrofe incombente dello svuotamento di tutti i sensi (non solo della vista), la minaccia della condizione di cui possiamo essere tutti vittime. A meno che non ci salvi, come diceva Pasolini un film di Godard oppure uno, aggiungiamo noi, di un Bellocchio forte ed estremo come questo. A meno che non ci salvi la stessa fantasia che ha generato i mostri marmorei di Villa Palagonia, la fantasia del cinema.

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