STORIA E TRADIZIONI
A volte "avi pitittu", "muriu" o "arricchiu": tutti i modi di dire (da cani) in Sicilia
Nell'Isola il rapporto con il "cane" è andato, nel corso dei secoli, ben al di là della carezzina, scodinzolamenti, creando un rapporto così stretto da dare adito a detti

Al norde dicono che siamo noi in Sicilia ad essere allafannati, che ogni occasione è buona per fare schiticchi e mangiare, però, con rispetto parlando, non è che loro, quando scendono qui da noi, sono tanto diversi: sposano appieno la filosofia mangereccia dell’isola.
Ennesima dimostrazione è quando vengono a trovarci, da oltre lo stretto, amici carissimi di Pisa i quali, appena atterrati, la prima cosa che devono fare è la colazione con la iris fritta, giusto per darsi una carica in più!
Ora può essere mai che gli si possa fare la negativa? Giammai, anche perché l’occasione è propizia per futtirinni a legittima pure noi. Così ogni volta, dal ritorno dall’aereoporto vi è la tappa obbligata al nostro bar di Carini di riferimento, dove ormai siamo di casa, e non ci si limita all’iris ma si fa sempre danno grosso.
Così l’ultima volta i cari toscanacci, non potendo aspettare di arrivare a casa si sono presi direttamente una iris da mangiare nell’attesa che Salvo impacchettasse il resto della spesa, addentando il dolce e bruciandosi con la ricotta che aveva ancora la temperatura del magma di uno dei crateri dell’Etna.
Così mentre l’amico farfugliava in un misto di godimento e dolore mi è venuto spontaneo dirgli «anchiama… pari chi hai cchiù pitittu ri un cani nà chiesa!».
Loro ormai hanno imparato a capire il siciliano per cui la risposta è stata “ma perché in Sicilia ci sono i cani in chiesa?”.
A parte dovergli spiegare che è solo un modo di dire per indicare qualcuno che, colto da pitittu e povertà neri, chiede aiuto in un luogo sacro ove dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) ricevere aiuto, la cosa mi ha fatto riflettere sul fatto che qui da noi il rapporto con il "cane" è andato, nel corso dei secoli, ben al di là della carezzina, scodinzolamenti e sguardi, creando un rapporto così stretto da dare adito a dei modi di dire che vedono il nostro amato e fedele quadrupede come protagonista.
Una delle più usate da me è spesso muriu u cani ed ogni volta Marley, il cane di mannara domestico, mi talìa come a dirimi, “ma picchì un ti va cuogghi i luppina agghiri a Monreale?” tastandosi vigorosamente gli ormai ex gioielli di famiglia canini. Muriu u cani indica quando tutto è perduto, non c’è proprio nulla da fare, la cosa ormai è para para pa priessa.
È valida quando semplicemente si dimentica sulla garigghia la salsiccia quella buona che ti purtaru ru paisi, bruciandola, o per qualcosa di molto più grave come potrebbe essere la perdita del lavoro o la rottura definitiva dell’automobile.
È utile anche per rendere l’idea di qualcosa di astratto, un po' come fece Tomasi di Lampedusa nè il Gattopardo, con la morte dell’amato cane Bandicò che simboleggia la caduta definitiva della nobiltà siciliana. Restando in tema di allittrati, direttamente da cane deriva cagnolo, e chi più di Tancredi era un vero cagnolo?
U cagnolo non è solo il cucciolo di cane o la mensola dei balconi (che poi si chiamava cagnolo proprio perché negli esclusivi balconi dei palazzi nobiliari spesso stavano i canuzzi di compagnia della famiglia).
Il cagnolo è colui che ha addosso l’argento vivo, che non ha resetto, che si butta a capofitto in imprese o gesti spesso avventati, ma alla fine simpatico, vucciriota, proprio come può essere per l’appunto un cagnolo, un cucciolo alle prese con i mille stimoli che gli arrivano dal mondo che sta scoprendo.
Purtroppamente, c’è anche il canazzo i bancata che, restando in ambito di quadrupedia canina, è semplicemente quel povero cane randagio che a fine giornata si aggira tra i banchi del mercato alla ricerca di un avanzo di cui cibarsi, ma in ambito “umano” viene associato a colui che vive sulle spalle degli altri, un parassita che, con la prepotenza e la supricchiaria, sfrutta le persone per avere dei benefici.
Un canazzu i bancata è quel cato di lippo che magari chiede il pizzo ai commercianti per offrirgli una protezione inesistente o che si appropria delle idee altrui per farle proprie o che non si fa problemi a screditare una persona pur di averne un vantaggio, utile come un due di coppe con briscola a mazze.
A tal proposito Emma Dante ha ideato uno spettacolo teatrale che rende perfettamente l’idea e che si intitola per l’appunto “cani i bancata”. Ma siccome al peggio non c’è mai fine ed arrivati al fondo del pozzo si può sempre cominciare a scavare, non è raro che un canazzu i bancata possa essere anche un cani ca un cunusce patruni.
Lui non solo è un parassita, ma è anche l’ideale del perfetto ingrato, colui che non esiterebbe minimamente nel pugnalare un amico alla spalle per averne un vantaggio.
Insomma un vera malaminnita, uno che a suo confronto u fango è acqua distillata! Ma tutti, pure cose inutili come quelle citate, sanno bene che che non bisogna mai scuncicare u cani ca ruorme. Il cane che dorme potrebbe essere la persona buona, gentile, sempre accondiscendente che, ammutta oggi, ‘uncueta rumani, atturra dopodomani, ad un certo punto ch’acchiana l’embolo e accumincia a "muzzicare".
Magari il cane che dorme potrebbe riferirsi a quel lavoro che uno proprio ci siddia a fare, che sa già che è una camurria, tipo "Alessandro vedi che ci sarebbe il cancello da ridipingere… " ed Alessandro risponde "ma picchì ‘a scuncicare u cani ca ruormi… "(ogni riferimento nominativo è puramente casuale).
Ma il cane che dorme potrebbe anche essere qualcuno che detiene un potere, più o meno legittimo, e di cui potrebbe abusare per creare problemi, nel caso in cui venisse, per l’appunto scuncicato.
Onestamente i riferimenti canini nel siculo-linguaggio sarebbero ancora tanti, ma ci vorrebbe un trattato canino-linguistico per prenderli in esame tutti, per cui vorrei chiudere con una perla, quasi dimenticata, detta da un alunno della mia dolce metà. «maè, u patruni muriu e u cani arricchiu!».
Ora io non lo so a cosa volesse riferirsi l’amabile fanciullo, ma tale frase dà l’idea di quando qualcuno di importate va via da un ruolo lasciandolo disponibile a tutti quei "cani" che magari fino a 5 minuti prima facevano a gara a fargli da bardigghiu, a tipo Giuvà, u sapisti chi Tanino u trasferero a Roma e ora Pippino pigghia u posto ca era suo?» e lui: «’ncà Giusè, u patruni muriu e u cani arricchiu!».
Ennesima dimostrazione è quando vengono a trovarci, da oltre lo stretto, amici carissimi di Pisa i quali, appena atterrati, la prima cosa che devono fare è la colazione con la iris fritta, giusto per darsi una carica in più!
Ora può essere mai che gli si possa fare la negativa? Giammai, anche perché l’occasione è propizia per futtirinni a legittima pure noi. Così ogni volta, dal ritorno dall’aereoporto vi è la tappa obbligata al nostro bar di Carini di riferimento, dove ormai siamo di casa, e non ci si limita all’iris ma si fa sempre danno grosso.
Così l’ultima volta i cari toscanacci, non potendo aspettare di arrivare a casa si sono presi direttamente una iris da mangiare nell’attesa che Salvo impacchettasse il resto della spesa, addentando il dolce e bruciandosi con la ricotta che aveva ancora la temperatura del magma di uno dei crateri dell’Etna.
Così mentre l’amico farfugliava in un misto di godimento e dolore mi è venuto spontaneo dirgli «anchiama… pari chi hai cchiù pitittu ri un cani nà chiesa!».
Loro ormai hanno imparato a capire il siciliano per cui la risposta è stata “ma perché in Sicilia ci sono i cani in chiesa?”.
A parte dovergli spiegare che è solo un modo di dire per indicare qualcuno che, colto da pitittu e povertà neri, chiede aiuto in un luogo sacro ove dovrebbe (il condizionale è d’obbligo) ricevere aiuto, la cosa mi ha fatto riflettere sul fatto che qui da noi il rapporto con il "cane" è andato, nel corso dei secoli, ben al di là della carezzina, scodinzolamenti e sguardi, creando un rapporto così stretto da dare adito a dei modi di dire che vedono il nostro amato e fedele quadrupede come protagonista.
Una delle più usate da me è spesso muriu u cani ed ogni volta Marley, il cane di mannara domestico, mi talìa come a dirimi, “ma picchì un ti va cuogghi i luppina agghiri a Monreale?” tastandosi vigorosamente gli ormai ex gioielli di famiglia canini. Muriu u cani indica quando tutto è perduto, non c’è proprio nulla da fare, la cosa ormai è para para pa priessa.
È valida quando semplicemente si dimentica sulla garigghia la salsiccia quella buona che ti purtaru ru paisi, bruciandola, o per qualcosa di molto più grave come potrebbe essere la perdita del lavoro o la rottura definitiva dell’automobile.
È utile anche per rendere l’idea di qualcosa di astratto, un po' come fece Tomasi di Lampedusa nè il Gattopardo, con la morte dell’amato cane Bandicò che simboleggia la caduta definitiva della nobiltà siciliana. Restando in tema di allittrati, direttamente da cane deriva cagnolo, e chi più di Tancredi era un vero cagnolo?
U cagnolo non è solo il cucciolo di cane o la mensola dei balconi (che poi si chiamava cagnolo proprio perché negli esclusivi balconi dei palazzi nobiliari spesso stavano i canuzzi di compagnia della famiglia).
Il cagnolo è colui che ha addosso l’argento vivo, che non ha resetto, che si butta a capofitto in imprese o gesti spesso avventati, ma alla fine simpatico, vucciriota, proprio come può essere per l’appunto un cagnolo, un cucciolo alle prese con i mille stimoli che gli arrivano dal mondo che sta scoprendo.
Purtroppamente, c’è anche il canazzo i bancata che, restando in ambito di quadrupedia canina, è semplicemente quel povero cane randagio che a fine giornata si aggira tra i banchi del mercato alla ricerca di un avanzo di cui cibarsi, ma in ambito “umano” viene associato a colui che vive sulle spalle degli altri, un parassita che, con la prepotenza e la supricchiaria, sfrutta le persone per avere dei benefici.
Un canazzu i bancata è quel cato di lippo che magari chiede il pizzo ai commercianti per offrirgli una protezione inesistente o che si appropria delle idee altrui per farle proprie o che non si fa problemi a screditare una persona pur di averne un vantaggio, utile come un due di coppe con briscola a mazze.
A tal proposito Emma Dante ha ideato uno spettacolo teatrale che rende perfettamente l’idea e che si intitola per l’appunto “cani i bancata”. Ma siccome al peggio non c’è mai fine ed arrivati al fondo del pozzo si può sempre cominciare a scavare, non è raro che un canazzu i bancata possa essere anche un cani ca un cunusce patruni.
Lui non solo è un parassita, ma è anche l’ideale del perfetto ingrato, colui che non esiterebbe minimamente nel pugnalare un amico alla spalle per averne un vantaggio.
Insomma un vera malaminnita, uno che a suo confronto u fango è acqua distillata! Ma tutti, pure cose inutili come quelle citate, sanno bene che che non bisogna mai scuncicare u cani ca ruorme. Il cane che dorme potrebbe essere la persona buona, gentile, sempre accondiscendente che, ammutta oggi, ‘uncueta rumani, atturra dopodomani, ad un certo punto ch’acchiana l’embolo e accumincia a "muzzicare".
Magari il cane che dorme potrebbe riferirsi a quel lavoro che uno proprio ci siddia a fare, che sa già che è una camurria, tipo "Alessandro vedi che ci sarebbe il cancello da ridipingere… " ed Alessandro risponde "ma picchì ‘a scuncicare u cani ca ruormi… "(ogni riferimento nominativo è puramente casuale).
Ma il cane che dorme potrebbe anche essere qualcuno che detiene un potere, più o meno legittimo, e di cui potrebbe abusare per creare problemi, nel caso in cui venisse, per l’appunto scuncicato.
Onestamente i riferimenti canini nel siculo-linguaggio sarebbero ancora tanti, ma ci vorrebbe un trattato canino-linguistico per prenderli in esame tutti, per cui vorrei chiudere con una perla, quasi dimenticata, detta da un alunno della mia dolce metà. «maè, u patruni muriu e u cani arricchiu!».
Ora io non lo so a cosa volesse riferirsi l’amabile fanciullo, ma tale frase dà l’idea di quando qualcuno di importate va via da un ruolo lasciandolo disponibile a tutti quei "cani" che magari fino a 5 minuti prima facevano a gara a fargli da bardigghiu, a tipo Giuvà, u sapisti chi Tanino u trasferero a Roma e ora Pippino pigghia u posto ca era suo?» e lui: «’ncà Giusè, u patruni muriu e u cani arricchiu!».
Ti è piaciuto questo articolo?
Seguici anche sui social
Iscriviti alla newsletter
|
GLI ARTICOLI PIÚ LETTI
-
STORIA E TRADIZIONI
Per i cugini era un "mostro", per la madre una figlia: la storia del (vero) "Gattopardo"