LE STORIE DI IERI

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Il “temerario” sotto gli archi di luminaria

  • 26 luglio 2004

Per l’incultura d’un simpatico impresario di luminarie, nel mio lessico familiare il termine “temerario” figurò allegramente con ben altro significato da metà anni sessanta. Dal giorno in cui, in vista del Festino, ad un gruppo di giovani cronisti quel tale maestro della luce elettrica descrisse l’itinerario d’archi rilucenti che la sua ditta aveva approntato per Rosalia e il suo popolo. Appunto il suo personale “temerario”. E benchè sempre più logoro nel remoto ricordo, quel temerario-itinerario divenne tradizione di famiglia individuarlo e percorrerlo prima d’ogni 15 luglio in tutto il centro storico. Solo che quest’anno il “temerario” sotto gli archi di luminaria ci è parso meno ricco e lungo del solito. In fondo poco male ora che l’elettricità costa tanto. In compenso,al fanciullino che anche alla nostra età continua a dettarci dentro, è parso più spettacolare del solito il gioco di fuoco alla Marina. Il balenante susseguirsi delle sontuose effimere cortine di bello che per rumorosa tradizione segnano l’esplosione vera e propria del Festino.

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Fatte da sempre di razzi, mascoli e mortaretti che, prima dal piano del Palazzo reale e poi dalla Strada Colonna alla Marina – ma per una volta anche dal Parco della Favorita - fecero omaggio dei più eterei e rutilanti “triunfi” a Rosalia Sinibaldi. Romita del Pellegrino di stirpe carolingia, incoronata dagli angeli con le rose e i gigli. Fu perciò che anche quest’anno, insieme ai pochi amici che quei botti amano ancora siamo tornati a stiparci sull’aerea passeggiata delle Cattive. Luogo elettivo delle vedove che al tempo dei vicerè avevano facoltà di passeggiarvi alla ricerca di un nuovo marito. Ciò che non le rendeva nè cattive, né tanto meno captivae diaboli, prigioniere d’un demonio che le faceva smaniare per inesauste umanissime voglie. E ancora una volta, a ridosso dell’ormai virtuale imponenza dei bastioni di Vega e del Tuono, ci sentimmo strappare i vestiti dallo spostamento d’aria di razzi enormi, tra le consuete e gigantesche “alzate” di cubaita, torroni e spaccadenti d’ogni tipo, carrube e fave caliate, variopinti gelati di campagna. Non fu ancora una volta possibile riprovare il piacere impagabile dei fuochi visti dal mare.

Come si faceva una volta, da bordo dei pescherecci che a stento riunivano a staccare le chiglie dal fondo melmoso della cala e a districarsi tra i relitti semi affondati di natanti ormai irriconoscibili. Per fermarsi solo a poche centinaia di metri al largo della nobile Palazzata della Marina. A goderci tutti quanti, equipaggio e passeggeri, i giochi pirotecnici che assumevano perfino un sapore. Quello delle angurie e del vino dell’allegria. Mentre con lo schiocco non si baciavano soltanto i babbaluci a picchi pacchi. Perché per contratto di nozze i mariti, e non solo quelli delle belle provinciali, s’impegnavano a condurre almeno una volta le sposine a passeggiare sotto le luci del festino di Santa Rosalia. E perciò coppiette nuove non ne mancavano nemmeno sui nostri indimenticabili “battelli ebbri”. Tra i sibili e gli scoppi delle belle bombe che non facevano male. Sposi arcanamente protetti, anche per via di quelle clausole matrimoniali, dalla bionda Romita che rifiutò nozze principesche per vegliare eternamente anche su tutti gli innamorati all’ombra del Pellegrino.

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