TRADIZIONI
Bombette, “sciallotte” e pezzi duri: il sapore dell’estate nella Palermo di una volta
Si sa che i siciliani sono un popolo goloso di gelati e sorbetti, squisitezze molto diffuse anche per motivi climatici. Facciamo un viaggio nel gusto e nella storia
“Gelati, granita..rinfrescatevi la gola!...Picciriddi chianciti, chianciti! Piangete che la mamma vi compra il gelato!” Così "abbanniavano" una volta, nelle afose giornate estive, i venditori ambulanti di gelato, che si aggiravano con la carrettella (carretto) a forma di barca, preannunciati dal suono della loro trombetta, per le strade e i vicoli assolati di Palermo: 'u zu Ninu, 'u zu Filippu, 'u zu Peppi, 'u zu Cicciu, 'u zu Natali, Nenè, Don Mimmo….tanti sono stati i venditori di gelato che hanno fatto felici diverse generazioni di bambini palermitani, soprattutto dagli anni del dopoguerra fino quasi ai nostri giorni.
Si sa che i siciliani sono un popolo goloso di gelati e sorbetti, squisitezze molto diffuse anche per motivi climatici; scriveva Fulco di Verdura, ricordando la sua infanzia, in "Estati Felici": “La vera passione dei siciliani era, e forse sarà ancora, quella del gelato in tutte le sue svariate forme: pezzi duri, spumoni, sorbetti, granite, croccanti con panna e diverse essenze, moka, giardinetto…In città le gelaterie abbondavano.
Le più rinomate erano quelle della Marina sotto le mura o quelle del Teatro Massimo… Non c’era neppure bisogno di scendere dalla carrozza perché il cameriere ce li portava sopra un vassoio e li consumavamo seduta stante, mentre il cocchiere prendeva il suo seduto in cassetta: scendere per andarsi a sedere a un tavolino sul marciapiede era impensabile".
Si ipotizza che furono i dominatori islamici a importare in Sicilia la ricetta dello sherbet (da sharba, bibita): bevanda ghiacciata aromatizzata con essenze di frutta o fiori, a cui successivamente i siciliani aggiunsero per rinfrescare la neve, ottenendo una consistenza più simile a quella della granita.
I nostri antenati erano esperti nel conservare la neve, che già nel XVI secolo veniva venduta alle famiglie aristocratiche per rinfrescare l’acqua.
Si legge infatti nel Diario di Filippo Paruta: nel 1577 "si incominciò ad usare il bevere arrifriscato con neve". Tra le vie del centro storico di Palermo esistono ancora oggi vicoli con nomi suggestivi che ricordano corporazioni e mestieri, ad esempio il “vicolo della neve all’alloro” dove esisteva una bottega che vendeva la neve.
Sino ai primi decenni del ’900, era uso in Sicilia raccogliere e conservare in inverno dentro apposite fosse (dette niveri) la neve: una volta ridotta in cubi di ghiaccio, veniva posta in sacchi coibentati con paglia e veniva trasportata in città dai nivalori. La vendita della neve serviva ai sorbettieri e ai caffettieri per preparare sorbetti e gelati, agli acquaioli per preparare acqua fresca aromatizzata, ai medici per fini terapeutici.
Dall’impiego della neve per rinfrescare l’acqua all’invenzione delle gramolate o granite, con l’aggiunta di frutta fresca il passo fu breve. Si tramanda poi che il cuoco siciliano Francesco Procopio Cutò, più conosciuto come Procopio dei coltelli (secondo alcuni studiosi nato a Palermo, secondo altri ad Acitrezza), fondatore nel 1686 del Le Procope, il più antico caffè di Parigi fu l’inventore del gelato: un delizioso dessert che divenne immediatamente una presenza fissa nei menu dei ricevimenti dell’aristocrazia isolana.
Nei Diari del Marchese di Villabianca si riporta che per una festa a Palazzo Butera, organizzata il 13 Maggio 1799 dal principe Ercole Michele Branciforti e Pignatelli, la neve consumata per i gelati fu di 5 tonnellate.
Re Ferdinando II, goloso di gelati e sorbetti, aveva anche in estate, nei sotterranei della reggia di Ficuzza, una buona riserva di neve, perché il cuoco potesse preparargliene sempre. Anche il popolo, seppur raramente, riusciva talvolta a consumare granite, sorbetti e gelati.
Il 24 giugno, per San Giovanni, in forma festosa, già nel Settecento, si inaugurava la passeggiata alla Marina per godere un po' di fresco. Accorrevano tutti: nobili, borghesi, maestri, preti, impiegati e professionisti (un rito che si è perpetuato fino al secolo scorso); andavano a passeggiare e a gustare il gelato che si vendeva nelle casette che sorgevano sotto le mura delle cattive.
Lo studioso Giuseppe Pitrè racconta che in occasione del Festino di Santa Rosalia accorrevano a Palermo, alla Marina, i viddani (contadini) di tutta la provincia: ricchi e poveri che fossero, facevano sempre grandi scorpacciate di sorbetti, ma diventavano presto oggetto di scherno da parte dei “cittadini” che li ritenevano dei sempliciotti.
Si diceva per esempio che alcuni viddani erano stati visti mentre soffiavano istintivamente sull’acqua tisi per toglierne il troppo freddo…(i palermitani chiamavano curiosamente i sorbetti “acqui tisi”) oppure che addirittura una volta uno di questi aveva preso il sorbetto dal suo piattino, lo aveva avvolto in un tovagliolo e se l’era portato a casa, per mangiarlo poi al suo paese: quanta delusione nell’accorgersi che il sorbetto si era sciolto!
Negli ultimi decenni dell’Ottocento sorsero le prime fabbriche di ghiaccio, e aumentarono i produttori di gelati, che si incominciarono a vedere per le strade.
Ecco nascere dunque i primi ambulanti, con i pozzetti ricolmi di gelato, che andavano in giro col loro carrettino. Un tempo si potevano assaporare delicati gusti oggi scomparsi come il gelato al gelsomino o quello alla scorzonera e cannella: la scorzonera è una radice dolce, carnosa e allungata, un tempo veniva molto utilizzata in Sicilia per preparare conserve.
Fino a qualche anno fa si utilizzava la dicitura scorzonera per utilizzare un gelato preparato solo con gelsomino e cannella. Il nome scorzonera deriva dalla parola catalana escorso che significa vipera, perché nel Medioevo si attribuivano alla sua radice poter taumaturgici contro il veleno di questi rettili.
La clientela degli ambulanti erano soprattutto bambini; racimolavano qualche soldino per potersi comprare un canestrino: antesignano della moderna coppetta era un piccolo cestino di cialda in cui venivano adagiate un paio di abbondanti cucchiaiate di buonissimo gelato.
Per chi poteva spendere un po’ di più c’era la sciallotta (pronuncia popolare di charlotte), una sorta di mattonella di gelato, posta tra due cialde dolci; veniva preparata al momento (perché la cialda doveva rimanere croccante, altrimenti il gelato si sarebbe squagliato) dal gelataio che utilizzava una formella di metallo (fabbricata di solito in via dei Calderai).
Tra le due cialde si potevano mettere fino a tre strati di gelato, il venditore infatti dosava il quantitativo in base al prezzo pattuito: doppio gusto negli anni 50 costava intorno alle 10 lire.
Quando si chiudeva la mattonella con la seconda e ultima cialda si pressava delicatamente il tutto, per compattare. I bambini assistevano alla preparazione in rigoroso e sacro silenzio, assaporando già mentalmente, con l’acquolina in bocca, lo squisito gelato.
Gli adulti, stremati dall’afa che toglieva il fiato, ogni tanto si lasciavano tentare e “calavano” allora il paniere dal balcone o dalla finestra: il venditore prendeva le monete, poste sul fondo del paniere e vi riponeva il gelato.
Scuoteva la funicella attaccata al manico del paniere e quello era il segno convenuto, il proprietario tirava su e recuperava il paniere col suo prezioso contenuto.
Fino alla fine del Novecento a Palermo, la domenica pomeriggio e la sera, le famiglie andavano a passeggiare al Foro Italico, per godere di un po’ di fresco: nel palchetto della musica suonava qualche orchestrina o qualche complesso.
Si degustavano dopo la passeggiata, rigorosamente seduti al tavolino, gelati dai colori delicati, posti su piattini con centrini di carta, utilizzando cucchiaini a becco d’anatra: i pezzi duri, quelli imbottiti con panna e frutta candita, la cassata gelato, la bombetta… gli spongati venivano serviti in coppe di metallo.
A proposito del pezzo duro, bisognerà ricordare che già nel lontano 1860 lo scrittore Ippolito Nievo, giunto con Garibaldi in Sicilia, si trovava a Palermo e scriveva all’amata Bice: “Per un carlino si piglia una libbra di pezzo duro; noi pigliamo pezzi duri gelati tutto il giorno”.
Il pezzo duro è un tipo di gelato simile al tronchetto, caratterizzato da una consistenza più solida e consistente rispetto al gelato tradizionale, è pensato per essere gustato lentamente.
Si trova in diversi gusti; la scrittrice Simonetta Agnello Hornby ricorda che quando era bambina in casa sua si poteva scegliere tra cinque gusti: cioccolato, nocciola, torrone, caffè e pistacchio. I pezzi duri venivano venduti “nei loro contenitori di metallo a forma di mezzo uovo, che poi avremmo riportato vuoti.
Il gelato, molto denso era a base di latte e al centro della forma c’era una grossa noce di panna montata, zuccherata e aromatizzata alla cannella. Bastavano i colori a far venire l’acquolina in bocca: quello del cioccolato era scurissimo, quasi nero, e lucido; quello della nocciola, un marrone pastoso; quello del torrone beige chiaro con miriadi di puntini di mandorla tritata; quello del caffè un misto tra torroncino e beige; e infine il verde delicato e invitante del pistacchio, con sopra una spruzzata di pistacchi tritati”. (S. Agnello Hornby, Un filo d’olio).
Franca Florio, amante della buona tavola (nonostante i tanti accorgimenti per mantenere sempre una perfetta silhoutte) decantava spesso la bontà dello schiumone/spumone al cioccolato, servito sempre al termine dei pranzi di famiglia, anche in inverno, e preparato con ricetta segreta di Casa Florio.
Nelle estati di una volta il gelato artigianale aveva – soprattutto per chi non era benestante - il sapore della festa, della spensieratezza, delle vacanze, della libertà… in un tempo pieno di sogni e di felicità, si era ancora capaci di gioire per i piaceri semplici.
Quando finiva la bella stagione i venditori ambulanti di gelato si inventavano qualcosa per sopravvivere, molti per esempio cambiavano attività e si mettevano a vendere ciambelle o arancine col cioccolato e lo zucchero davanti alle scuole: ma questa è un’altra storia.
Si sa che i siciliani sono un popolo goloso di gelati e sorbetti, squisitezze molto diffuse anche per motivi climatici; scriveva Fulco di Verdura, ricordando la sua infanzia, in "Estati Felici": “La vera passione dei siciliani era, e forse sarà ancora, quella del gelato in tutte le sue svariate forme: pezzi duri, spumoni, sorbetti, granite, croccanti con panna e diverse essenze, moka, giardinetto…In città le gelaterie abbondavano.
Le più rinomate erano quelle della Marina sotto le mura o quelle del Teatro Massimo… Non c’era neppure bisogno di scendere dalla carrozza perché il cameriere ce li portava sopra un vassoio e li consumavamo seduta stante, mentre il cocchiere prendeva il suo seduto in cassetta: scendere per andarsi a sedere a un tavolino sul marciapiede era impensabile".
Si ipotizza che furono i dominatori islamici a importare in Sicilia la ricetta dello sherbet (da sharba, bibita): bevanda ghiacciata aromatizzata con essenze di frutta o fiori, a cui successivamente i siciliani aggiunsero per rinfrescare la neve, ottenendo una consistenza più simile a quella della granita.
I nostri antenati erano esperti nel conservare la neve, che già nel XVI secolo veniva venduta alle famiglie aristocratiche per rinfrescare l’acqua.
Si legge infatti nel Diario di Filippo Paruta: nel 1577 "si incominciò ad usare il bevere arrifriscato con neve". Tra le vie del centro storico di Palermo esistono ancora oggi vicoli con nomi suggestivi che ricordano corporazioni e mestieri, ad esempio il “vicolo della neve all’alloro” dove esisteva una bottega che vendeva la neve.
Sino ai primi decenni del ’900, era uso in Sicilia raccogliere e conservare in inverno dentro apposite fosse (dette niveri) la neve: una volta ridotta in cubi di ghiaccio, veniva posta in sacchi coibentati con paglia e veniva trasportata in città dai nivalori. La vendita della neve serviva ai sorbettieri e ai caffettieri per preparare sorbetti e gelati, agli acquaioli per preparare acqua fresca aromatizzata, ai medici per fini terapeutici.
Dall’impiego della neve per rinfrescare l’acqua all’invenzione delle gramolate o granite, con l’aggiunta di frutta fresca il passo fu breve. Si tramanda poi che il cuoco siciliano Francesco Procopio Cutò, più conosciuto come Procopio dei coltelli (secondo alcuni studiosi nato a Palermo, secondo altri ad Acitrezza), fondatore nel 1686 del Le Procope, il più antico caffè di Parigi fu l’inventore del gelato: un delizioso dessert che divenne immediatamente una presenza fissa nei menu dei ricevimenti dell’aristocrazia isolana.
Nei Diari del Marchese di Villabianca si riporta che per una festa a Palazzo Butera, organizzata il 13 Maggio 1799 dal principe Ercole Michele Branciforti e Pignatelli, la neve consumata per i gelati fu di 5 tonnellate.
Re Ferdinando II, goloso di gelati e sorbetti, aveva anche in estate, nei sotterranei della reggia di Ficuzza, una buona riserva di neve, perché il cuoco potesse preparargliene sempre. Anche il popolo, seppur raramente, riusciva talvolta a consumare granite, sorbetti e gelati.
Il 24 giugno, per San Giovanni, in forma festosa, già nel Settecento, si inaugurava la passeggiata alla Marina per godere un po' di fresco. Accorrevano tutti: nobili, borghesi, maestri, preti, impiegati e professionisti (un rito che si è perpetuato fino al secolo scorso); andavano a passeggiare e a gustare il gelato che si vendeva nelle casette che sorgevano sotto le mura delle cattive.
Lo studioso Giuseppe Pitrè racconta che in occasione del Festino di Santa Rosalia accorrevano a Palermo, alla Marina, i viddani (contadini) di tutta la provincia: ricchi e poveri che fossero, facevano sempre grandi scorpacciate di sorbetti, ma diventavano presto oggetto di scherno da parte dei “cittadini” che li ritenevano dei sempliciotti.
Si diceva per esempio che alcuni viddani erano stati visti mentre soffiavano istintivamente sull’acqua tisi per toglierne il troppo freddo…(i palermitani chiamavano curiosamente i sorbetti “acqui tisi”) oppure che addirittura una volta uno di questi aveva preso il sorbetto dal suo piattino, lo aveva avvolto in un tovagliolo e se l’era portato a casa, per mangiarlo poi al suo paese: quanta delusione nell’accorgersi che il sorbetto si era sciolto!
Negli ultimi decenni dell’Ottocento sorsero le prime fabbriche di ghiaccio, e aumentarono i produttori di gelati, che si incominciarono a vedere per le strade.
Ecco nascere dunque i primi ambulanti, con i pozzetti ricolmi di gelato, che andavano in giro col loro carrettino. Un tempo si potevano assaporare delicati gusti oggi scomparsi come il gelato al gelsomino o quello alla scorzonera e cannella: la scorzonera è una radice dolce, carnosa e allungata, un tempo veniva molto utilizzata in Sicilia per preparare conserve.
Fino a qualche anno fa si utilizzava la dicitura scorzonera per utilizzare un gelato preparato solo con gelsomino e cannella. Il nome scorzonera deriva dalla parola catalana escorso che significa vipera, perché nel Medioevo si attribuivano alla sua radice poter taumaturgici contro il veleno di questi rettili.
La clientela degli ambulanti erano soprattutto bambini; racimolavano qualche soldino per potersi comprare un canestrino: antesignano della moderna coppetta era un piccolo cestino di cialda in cui venivano adagiate un paio di abbondanti cucchiaiate di buonissimo gelato.
Per chi poteva spendere un po’ di più c’era la sciallotta (pronuncia popolare di charlotte), una sorta di mattonella di gelato, posta tra due cialde dolci; veniva preparata al momento (perché la cialda doveva rimanere croccante, altrimenti il gelato si sarebbe squagliato) dal gelataio che utilizzava una formella di metallo (fabbricata di solito in via dei Calderai).
Tra le due cialde si potevano mettere fino a tre strati di gelato, il venditore infatti dosava il quantitativo in base al prezzo pattuito: doppio gusto negli anni 50 costava intorno alle 10 lire.
Quando si chiudeva la mattonella con la seconda e ultima cialda si pressava delicatamente il tutto, per compattare. I bambini assistevano alla preparazione in rigoroso e sacro silenzio, assaporando già mentalmente, con l’acquolina in bocca, lo squisito gelato.
Gli adulti, stremati dall’afa che toglieva il fiato, ogni tanto si lasciavano tentare e “calavano” allora il paniere dal balcone o dalla finestra: il venditore prendeva le monete, poste sul fondo del paniere e vi riponeva il gelato.
Scuoteva la funicella attaccata al manico del paniere e quello era il segno convenuto, il proprietario tirava su e recuperava il paniere col suo prezioso contenuto.
Fino alla fine del Novecento a Palermo, la domenica pomeriggio e la sera, le famiglie andavano a passeggiare al Foro Italico, per godere di un po’ di fresco: nel palchetto della musica suonava qualche orchestrina o qualche complesso.
Si degustavano dopo la passeggiata, rigorosamente seduti al tavolino, gelati dai colori delicati, posti su piattini con centrini di carta, utilizzando cucchiaini a becco d’anatra: i pezzi duri, quelli imbottiti con panna e frutta candita, la cassata gelato, la bombetta… gli spongati venivano serviti in coppe di metallo.
A proposito del pezzo duro, bisognerà ricordare che già nel lontano 1860 lo scrittore Ippolito Nievo, giunto con Garibaldi in Sicilia, si trovava a Palermo e scriveva all’amata Bice: “Per un carlino si piglia una libbra di pezzo duro; noi pigliamo pezzi duri gelati tutto il giorno”.
Il pezzo duro è un tipo di gelato simile al tronchetto, caratterizzato da una consistenza più solida e consistente rispetto al gelato tradizionale, è pensato per essere gustato lentamente.
Si trova in diversi gusti; la scrittrice Simonetta Agnello Hornby ricorda che quando era bambina in casa sua si poteva scegliere tra cinque gusti: cioccolato, nocciola, torrone, caffè e pistacchio. I pezzi duri venivano venduti “nei loro contenitori di metallo a forma di mezzo uovo, che poi avremmo riportato vuoti.
Il gelato, molto denso era a base di latte e al centro della forma c’era una grossa noce di panna montata, zuccherata e aromatizzata alla cannella. Bastavano i colori a far venire l’acquolina in bocca: quello del cioccolato era scurissimo, quasi nero, e lucido; quello della nocciola, un marrone pastoso; quello del torrone beige chiaro con miriadi di puntini di mandorla tritata; quello del caffè un misto tra torroncino e beige; e infine il verde delicato e invitante del pistacchio, con sopra una spruzzata di pistacchi tritati”. (S. Agnello Hornby, Un filo d’olio).
Franca Florio, amante della buona tavola (nonostante i tanti accorgimenti per mantenere sempre una perfetta silhoutte) decantava spesso la bontà dello schiumone/spumone al cioccolato, servito sempre al termine dei pranzi di famiglia, anche in inverno, e preparato con ricetta segreta di Casa Florio.
Nelle estati di una volta il gelato artigianale aveva – soprattutto per chi non era benestante - il sapore della festa, della spensieratezza, delle vacanze, della libertà… in un tempo pieno di sogni e di felicità, si era ancora capaci di gioire per i piaceri semplici.
Quando finiva la bella stagione i venditori ambulanti di gelato si inventavano qualcosa per sopravvivere, molti per esempio cambiavano attività e si mettevano a vendere ciambelle o arancine col cioccolato e lo zucchero davanti alle scuole: ma questa è un’altra storia.
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