STORIA E TRADIZIONI
Chi le mangia "un mori mai": in Sicilia è un elisir di lunga vita e un (noto) modo di dire
Le sue origini sono "nobilissime" anche se è un alimento tra i più economici al mondo. Nella storia vanta origini antiche, tra tradizioni contadine e divinità Inca
La zia Agatina non cacava per non mangiare, è così che era riuscita a riempire il materasso di risparmi. Alla faccia di zio Aspano che per portare i soldi a casa aveva invece lavorato tutta una vita e le uniche ricompense che conosceva erano: patate bollite, patate nella pasta e frittata di patate. Insomma, patate pure sbattute al muro.
«L’anello però l’ha voluto col brillante, la potente b@#/*a!» E anche se da bambino non mi piacevano le parolacce, devo dire che quando si sfogava così in fondo in fondo zio Aspano teneva pure le sue ragioni.
Qualche giorno prima di andarsi ad "arrisittare" (così diciamo noi quando arriva il momento di fare il check-in da San Pietro), con voce affannata e alito denso d’amido mi raccomandò: "Gianlù, non ci credere a ‘sta cosa che cu mangia patate non muore mai… ‘na minkiata col botto è!".
Quello che però non poteva sapere zio Aspano è che questo tubero in realtà ha una storia nobilissima e che è riuscito a salvare milioni e milioni di persone dalle carestie.
La patata, che bella bella non è stata mai, nasce circa 8000 anni fa sulle rive del lago "Titicaca" tra la Bolivia e il Perù. Per 6000 anni non ne sappiamo un kaiz, poi 2000 anni fa diventa il cibo principale degli Incas.
Se fossi stato un sumero probabilmente sarei stato devoto a Enkisi, la divinità della birra, figlia di Enki, dio dell’acqua, e di Ninti, dea dell’acqua che sta negli abissi. Ma come, papà e mammà bevono acqua ed Enkisi si ittò a Forst? Beh, non fatevi meraviglia, è dalle migliori famiglie che escono i peggio drogati e alcolizzati.
Per tornare alla dea della patata, si chiamava Axomama ed era cugina tipo di terzo grado di Cocamama (dea della pianta para bailar La Bamba) e figlia di Pachamama, trasposizione della greca Gea ovvero dea terra-madre. Eh, ma andiamo alla questione “Culi’n aria”: come se la mangiavano questi Incas la patata?
Siccome le donne già a quei tempi erano amanti delle conserve, era abitudine tagliarle a fettine e stenderle su un letto di foglie per cinque giorni. La notte le lasciavano gelare, mentre la mattina ci camminavano sopra calpestandole, un poco per fare uscire i liquidi, un po' per lavarsi i piedi.
Il sole completava il tutto facendole seccare e sfarinare.
Pensate che in questo modo le patate potevano essere conservate per 10 anni… se questa cosa l’avesse saputa la zia Agatina avrebbe consumato sei generazioni a venire! Comunque, Impero Romano, invasioni barbariche, Carlo Magno, Medioevo, Rinascimento, Barocco, si arriva sino alla Francia prerivoluzionaria di Maria Antonietta.
E già che i ricchi dei poveri se ne strafottono, e che proprio in questi anni la patata dei poverissimi salva paesi interi dal morire di fame (vedi la carestia del 1700 in Irlanda, e da qui "chi mangia patate non muore mai"), la regina di stu kaiz ha la bellissima idea di diffondere in tutta la Francia l’usanza di indossare fiori di patata tra i capelli.
Eh, ma tanto va la morta al fard che ci lascia la zampogna, alla fine con questa fissazione della moda Antonietta ci perderà la testa.
Ed è giusto durante la Rivoluzione Francese, paradosso dei paradossi, che viene fatta una vera campagna per incentivarne la coltivazione. Ci pensa un apparente signor nessuno di nome Antoine Parmentier, nutrizionista e farmacista, che capisce la potenza della patata in tutte le sue varianti.
"Più patate per tutti, più patate per tutti!", si mette a gridare dai balconi nella speranza che la gente cominci ad amare la patata. Niente, nonostante i buoni propositi, non se lo calcola nessuno peggio di Carlo Calenda.
A quel punto, datosi che notoriamente l’erba del vicino sballa sempre di più, Antonino Parmentier si fa venire una bellissima pensata: fa coltivare numerosi campi di patate e gli mette a presidiare una caterva di militari armati.
Inevitabilmente, per la legge di "non è bello ciò che è gratis, ma quello che costa assai”, attrattati dal tubero, i contadini prendono d’assalto i campi, si fottono tutte le patate e di lì sapete come è finita nelle nostre tavole.
Comunque, alla fine, passati vent’anni dalla patatificazione di mio zio Aspano, arrivò per lui il momento di fare l’ultimo passaggio di materia: se in vita da stato solido era passato a stato "amidoso", ora necessitava di passare dal loculo all’ossario.
In famiglia temevamo di trovare dentro la bara un gattò di patate, tuttavia dovemmo costatare che nella morte tutti siamo uguali e che di inesorabile c’è solo lo scorrere del tempo.
Grande, soprattutto, fu lo stupore di zia Agatina che di fronte a ciò che di suo marito ne era rimasto, esclamò: "Mah! Una vita di spendere soldi in patate e alla fine quattro ossa addiventò".
L’avventura d’Aspano terminò lì, nel buono auspicio che ora si trovi in paradiso a prendersela con Antoine Parmentier per avergli rovinato la vita terrena, e nella confortante consapevolezza che siccome non era buddista non si è reincarnato in un tubero.
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